Giusta sentenza

La sentenza del giudice Clementina Forleo, che ha scarcerato i tre militanti islamici accusati di terrorismo, è il segno che lo stato di diritto «resiste» ancora in Italia. La rovente polemica scatenata contro di lei dal governo e dalle massime autorità dello stato è la prova che l’indipendenza della magistratura italiana non è stata ancora cancellata. «Resiste» anche alla ideologia bellicista di un governo servile che sacrifica le vite dei militari italiani perché questo giova ai profitti delle «nostre imprese». Lo ha dichiarato con volgare impudenza il presidente del consiglio per giustificare la morte di Simone Cola. La polemica che si è abbattuta su Clementina Forleo non è che una conferma della sua lucidità, oltre che del suo coraggio civile e morale. Su un punto, in particolare, la sentenza merita un commento positivo. Gli imputati sono stati assolti non solo per una serie di ragioni fattuali, ma anche per una precisa scelta interpretativa delle norme internazionali. Nella sentenza si sostiene anzitutto che è necessario tenere distinta la guerriglia armata dal terrorismo. E in secondo luogo si sostiene che, nel giudicare penalmente un atto di reazione violenta contro una forza occupante, quell’atto deve essere valutato nel contesto dell’uso generale di «strumenti ad altissima potenzialità offensiva».

Sul primo punto occorre anzitutto dire che la stessa nozione di terrorismo è oggi concettualmente indeterminata. Nonostante che siano almeno dodici le convenzioni che hanno tentano di dettare norme sull’argomento, manca ancora oggi una definizione condivisa. Non è un caso che commissari incaricati da Kofi Annan di stendere un progetto di riforma delle Nazioni unite, abbiano sostenuto l’urgenza di una definizione rigorosa che regoli legalmente la lotta contro il global terrorism.

Tutto ciò che oggi emerge dalla congerie dei documenti internazionali è che si è di fronte a un atto terroristico quando l’uso della violenza colpisce i civili in modo indiscriminato e ha come obiettivo la diffusione del panico fra la popolazione. E’ chiaro che questa nozione non tiene conto della condizione in cui si trovano popoli oppressi dalla violenza di forze occupanti, come nei casi palestinese e iracheno. Condannare penalmente come terrorista un militante di Hamas o un membro della guerriglia irachena – e accogliere Ariel Sharon o Iyad Allawi come rispettabili capi di Stato – significa davvero «mettere sullo stesso piano vittime e carnefici», come ha sostenuto in senso opposto il nostro ministro degli esteri. Dissociarsi politicamente dalla logica nichilista del terrorista suicida non può certo comportare la negazione del diritto di un popolo alla autodeterminazione e alla rivendicazione dei suoi diritti collettivi.

Sul secondo punto i paradossi del diritto internazionale sono ancora più gravi. Alla luce delle norme esistenti «terrorista» è soltanto il membro di una organizzazione «privata», che non si identifichi con l’apparato militare di uno stato. Ne consegue che le stragi di civili innocenti compiute nel corso di aggressioni militari, come lo è stata la guerra degli Stati uniti contro l’Iraq, o nel corso di occupazioni di un territorio, come è ancora il caso dell’Iraq (e della Palestina), non sono affatto «terroristiche». Sono comportamenti militari del tutto legittimi, poiché lo scempio di vite umane non è che un «effetto collaterale» di una guerra che si autolegittima grazie al soverchiante potere politico e militare di chi la conduce. Le Nazioni unite sono sempre pronte a concedere, ex post, la loro legittimazione formale. Al più si potrà parlare di «crimini contro l’umanità» che nessuna assise penale sarà in grado di accertare e di sanzionare.

Insomma l’allusione agli «strumenti ad altissima potenzialità offensiva», presente nella sentenza del giudice Forleo, solleva un problema delicatissimo. Dal punto di vista delle sue conseguenze la guerra moderna, condotta con strumenti di distruzione di massa, si distingue sempre meno dal terrorismo internazionale: stiamo attenti, perché se in Occidente qualcuno parla ancora di «guerra giusta», c’è il rischio che altri possano arrivare a parlare di «terrorismo giusto».