Giungla d’asfalto a Bologna. Storie di violenza quotidiana

E’ successo a Bologna, la colta, la tollerante, la civile. Un giovane di pelle scura è fermo al semaforo a bordo della sua auto, in attesa che scatti il verde. E’ immobile al suo posto di guida come tutti gli automobilisti del mondo, di “diverso” ha solo la sua pelle scura; ma a Bologna, la colta, la tollerante, la civile, nessuno ci fa caso, sono tanti i neri che popolano la città.

Non quel giorno, ieri, poco dopo mezzogiorno. Un’auto si affianca a quella del ragazzo nero, ne scende un energumeno, bianco, che gli si scaglia contro, tempestando la macchina di pugni e calci e lui di ingiurie e minacce. L’automobilista nero non reagisce, ma il bianco sempre più furioso afferra una stampella dall’abitacolo e gli fracassa i vetri del finestrino. A quel punto l’aggredito deve affrontarlo, il bianco lo carica di botte, all’ospedale gli danno una prognosi di dieci giorni; il bianco è denunciato per percosse e danneggiamenti. Fine.

Il nero aggredito si chiama Heye Kaire Malik, è un senegalese di 31 anni, musicista, un emigrante perfettamente integrato: lavora alla Asl, nei laboratori di percussione per disabili e bambini delle elementari. Uno come tutti, uno come noi.

Malik non si spiega quell’accesso di odio gratuito, quella aggressione ingiustificata; e a noi – antichi ammiratori di Bologna e dei suoi cittadini generosi, aperti, socievoli, persino “politicamente corretti” – riesce difficile anche solo pensare che l’incivile episodio sia il riflesso di un sentimento razzista celato da qualche parte nel ventre cittadino.

Nemmeno Malik, appunto, sa spiegare perché, «forse l’ho superato e non ha gradito». Forse l’ho superato, ecco un indizio. Più che il rigurgito dell’intolleranza razzista – o forse oltre ad esso – vale la giungla d’asfalto. Il quotidiano parterre di violenza, aggressività, reciproca astiosità e insofferenza in cui si sono trasformate le nostre città e le nostre strade stritolate dal caos, dalle lamiere rotolanti e furibonde, dal rumore e dal disordine perenne e dovunque. Vale lo stress, l’insofferenza reciproca, il tasso di violenza catapultate in giro – nell’aria, nell’atmosfera, nell’habitat insopportabile delle metropoli strangolate – dalle nostre giungle d’asfalto. Più che “Easy Rider”, centra “Crash. Contatto fisico”, il film di Paul Haggis su Los Angels, quell’inferno quotidiano. Centra la bella signora cui non manca nulla e che si sveglia ogni mattina dicendo a se stessa «sono furiosa e non so perché». Los Angeles – o la città qualsiasi dove viviamo noi -: le strade infinite e le automobili infinite, quelle corazze di metallo e vetro che corrono in cerca dell’impatto. Crash, l’aggressione al semaforo, siamo furiosi no?.

Los Angeles. Ma anche il nostro melting pot non funziona, non funziona più la nostra convivenza. Ci scontriamo: ricchi e poveri, bianchi e neri, latini e asiatici (l’avete letto “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio”?), la insopportazione di tutti mescolata insieme. Angosciati nei nostri abitacoli di automobilisti dannati, soli ognuno con le proprie paranoie, le proprie impotenze e fobie, stressati già prima di uscire di casa. E la paura, l’intolleranza verso lo straniero può diventare un furore in più. Ci mancano la calma, la dolcezza, la reciproca solidarietà; dentro i palazzi indifferenti si muore da soli; attaccati ai nostri volanti ci spintoniamo l’un l’altro a colpi di clacson idioti e non sappiamo più come si fa a sorridere. Stop al semaforo, pericolo…

Topi in gabbia a Los Angeles. Anche altrove.