«Giù le mani dalla storia»

A Cavriago, un paese a otto chilometri da Reggio Emilia, un busto di Lenin esiste davvero. Mentre il Pci di Occhetto cambiava nome e l’Urss ammainava la bandiera rossa sul Cremlino, si scatenò un putiferio tra chi era intenzionato ad abbatterlo e chi, invece, voleva mantenerlo – proprio come nell’ultimo romanzo di Giuseppe Caliceti, Il busto di Lenin (edizioni Sironi, pp.160, euro 12,00), in libreria da ieri. Decisi a conservare il monumento – simbolo di una vita spesa a lottare contro disuguaglianze e capitalismo – sono cinque pensionati: Libero, Ivan, Pravda, Spartaco e Palmiro.

Rispetto ai tuoi romanzi precedenti sulle giovani generazioni, in questo lo sguardo è focalizzato sulle generazioni anziane, quelle che hanno fatto la Resistenza e militato nel partito comunista. Sono due mondi separati o c’è un contatto tra nonni e nipoti?

Secondo me c’è un legame. Innanzitutto, il territorio, l’Emilia, tra Correggio, Carpi, Reggio Emilia e Modena. E poi queste due generazioni hanno in comune il fatto di essere ai margini del mondo del lavoro. Gli uni, devono inventarsi ancora un lavoro, gli altri sono pensionati. In mezzo, ci sono quelli che lavorano e che hanno una certa ideologia della realtà, più conforme al senso comune. E’ più facile trovare punti di vista alternativi – se vuoi, anche più scapestrati – nelle persone che non sono entrate nel lavoro, o che ne sono usciti. E’ una questione di tempo che può essere dedicato al divertimento, allo studio, alla lettura, all’approfondimento, alla riflessione. Tutti gesti fuori moda, oggi. Atti improduttivi per il senso comune. Non fanno profitto. Chi lavora ha appena il tempo di guardare un po’ di televisione, di leggere un giornale e tutto finisce lì.

C’è una bella frase del personaggio centrale, Libero. Quando si è vecchi si ha il vantaggio di poter essere un po’ matti…

Di poter guardare le cose da una distanza maggiore con più libertà. Fino a qualche tempo fa, all’anzianità era associata una condizione di saggezza. Oggi abbiamo perso questo nesso. La nostra cultura ha ripudiato la vecchiaia e ha messo al centro il giovanilismo sempre e comunque.

Con questo romanzo accetti il confronto su un terreno “esposto” ai luoghi comuni. Un gruppo di pensionati si stringe a difesa del busto di Lenin. In tanti sarebbero pronti a utilizzare l’argomento per confermare l’opinione che la rivoluzione russa è roba solo per vecchi nostalgici, magari neanche più tanto lucidi…

Chi dice questo non tiene conto del legame che si può istituire tra vecchi e giovani. Nel romanzo c’è un vero e proprio passaggio del testimone da Libero a un ragazzo. La festa del 31 dicembre 1991 a Cavriago per ricordare Lenin – un fatto realmente accaduto – fu organizzata dai ragazzi. Quegli ideali resistono in una certa parte della sinistra e anche fra i no-global. Oggi c’è una forte richiesta di moralità nella politica e, come dice Libero, «dobbiamo essere noi per primi a dare l’esempio». Abbiamo dimenticato gli onorevoli che andavano a lavorare alle feste dell’Unità o davano una parte dei soldi al partito? Non sta tornando d’attualità il problema della disuguglianza, della divisione tra ricchi e poveri, dello sfruttamento del Terzo mondo? Pace e solidarietà non sono cose da nostalgici.

Perché Libero riesce a commuovere?

Libero non si vergogna della propria storia. Ammette che in Russia c’erano cose che non andavano, ma si infuria con chi non ammette la propria storia. E’ un segno di forza, non di debolezza. Negare la propria storia, compresi gli errori che fanno parte di un passato individuale e collettivo, non è utile a nessuno. Crea confusione.

Né rimozioni né liquidazioni?

Nessuna delle due, Libero rilegge la propria storia come valore, la riconosce e non la nega. Chi rimuove – mi riferisco ad alcuni settori della sinistra – dimentica che si trova al proprio posto anche in virtù del lascito di quella storia. Un lascito elettorale, prima di tutto. Considero l’ideologia un fatto positivo e chi afferma oggi la fine delle ideologie mente. Cos’altro producono il mercato, la pubblicità, i partiti-azienda se non ideologia? Bisogna saper valorizzare la propria storia, del resto, da queste parti il comunismo non significava dittatura. Basta vedere la quantità e la qualità dei servizi. C’era l’aspirazione a un mondo migliore.

Oggi si è incrinata la connessione sentimentale tra sinistra e popolo, per molti anni abbiamo sentito parlare di buona amministrazione, di tecnici, di gestione oculata. Paradossalmente è cresciuto il populismo della destra che parla un linguaggio più diretto. Da scrittore che lavora sul lessico, come valuti questa crisi linguistica della sinistra?

Nel caso di Forza Italia c’è stata una produzione di simboli e ritualità attorno ai quali si sono coagulate anche emozioni. Dall’altra parte, invece, hanno cancellato qualsiasi forma di liturgia laica. Nel romanzo non mi sono soffermato sul lato razionale dell’ideologia politica, mi interessava il rapporto emotivo con le idee e i simboli. Se delle persone portano fiori davanti a una statua, è un fatto che attiene all’essere umano, alla nostra finitezza, all’impermanenza delle idee e delle emozioni. Negli anni ’70 persino la Dc vedeva in Lenin una figura positiva. E poco più di un mese fa il prete ha benedetto la piazza dove c’è il busto. I sentimenti, le passioni non sono secondari. Oggi penso che ci sia un problema di linguaggio. Non mi riferisco alla comunicazione televisiva. Parlo di lessico. La sinistra aveva in passato un modo più semplice di parlare, più popolare e creativo.

In prossimità della morte Libero si interroga. Cosa resta a 70 anni degli ideali per i quali si è combattuto?

Questa domanda è una prova di maturità. Lascia una testimonianza per le generazioni future, le quali non solo non hanno più – come accadeva in passato – aspettative di un futuro migliore di quello concesso ai loro padri, ma non gli è concesso neppure avere l’ideale di un mondo migliore. Cosa dobbiamo rispondere a un ragazzo che ci chiede “A cosa mi serve studiare se dal prossimo anno dovrò lavorare otto ore al giorno alla pressa? ” Ecco perché fa riflettere la frase pronunciata da Libero: «Non voglio dimostrare niente. Vorrei solo far sentire a tutti cos’è avere settant’anni, aspettare la morte da un momento all’altro e pensare che forse tanto sacrificio non è servito a niente…»