«Giù le mani dal welfare»

Anche il tanto decantato “modello danese” scricchiola. E scricchiola così tanto che ieri migliaia fra studenti e lavoratori sono scesi in piazza nelle 5 maggiori città del Paese (Copenhagen – dove erano in 40mila -, Aarhus, Odense, Aalborg e Esbjerg) per protestare contro le riforme del welfare annunciate dal governo (di centro destra) di Anders Fogh Rasmussen. Due soprattutto i punti all’origine del dissenso: l’innalzamento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni, entro il 2025, e la riduzione delle borse di studio e di alcuni sussidi di disoccupazione. Due provvedimenti – a detta della maggioranza di governo – resi necessari dall’elevato costo del sistema di welfare attuale, alla luce anche della previsione di un aumento dell’età media in Danimarca. Tanto per dire quanto queste modifiche siano rimaste indigeste ai promotori (sindacati e studenti) delle manifestazioni di ieri, l’antipasto è stato, mercoledì notte, la scalata di sei manifestanti alla cima della stazione ferroviaria, da dove hanno fatto vedere a tutti il loro slogan “No ai tagli, sì al welfare”.
La “flexicurity” quindi ha delle toppe, ne prendano atto i suoi più strenui sostenitori italiani, primo fra tutti il neo ministro del Lavoro, Cesare Damiano, che sull’argomento ha scritto anche un libro. C’è da dire che le proteste di ieri non riguardano specificatamente il lavoro, quanto piuttosto la copertura finanziaria dell’avanzato sistema sociale che il Paese scandinavo offre ai suoi cittadini. Per capirci, ogni anno circa 700mila danesi cambiano lavoro e un dipendente pubblico può essere licenziato con un preavviso di soli 3 giorni. Nonostante questo sono tutti felici e contenti e sindacati e imprese lavorano fianco a fianco nel fissare le regole del mercato. Non è contraddittorio, se pensiamo che in Danimarca il tasso di disoccupazione è del 4,3% (addirittura all’1, 2% la disoccupazione di lunga durata) e il Pil pro capite è di 34.700 euro all’anno. L’armonia fra flessibilità e sicurezza sociale è infatti garantita da un’ampia gamma di ammortizzatori sociali (nonché da alti investimenti per scuola e famiglia) che assicurano ad un lavoratore che perda il posto un periodo (fino a 4 anni) di sussidi di disoccupazione, pari anche al 90% dell’ultimo stipendio, e che parallelamente venga “accompagnato” dallo Stato nella ricerca di una nuova, e possibilmente migliore, occupazione.

Altro che Italia e Germania, i due Paesi che secondo Right managment, società di consulenza di Manpower, sono i due Paesi in Europa in cui i lavoratori sono i più preoccupati di perdere il posto di lavoro. In una scala da 1 a 100 infatti la fiducia degli italiani nel lavoro è al 47,7 (sei mesi fa era al 53,1) superiore solo al dato tedesco (46,1). Addirittura, il 12, 5% degli intervistati dice di temere di perdere il posto entro un anno. Ma oltre al licenziamento c’è la paura del dopo: l’88, 3% dei lavoratori intervistati giudica infatti «abbastanza o molto difficile» ritrovare un impiego alle stesse condizioni e retribuzione di quello perso. L’opposto della flexicurity, insomma: «Sì, ma quello è un modello che qua non arriverà mai, per almeno tre evidenti differenze: il numero di abitanti (la Danimarca è una regione dell’Italia); la struttura culturale e il livello del Pil pro capite – spiega Roberto Pizzuti, docente di politica economica alla Sapienza – In termini di formazione e assistenza loro spendono un multiplo di quanto facciamo noi». E infatti, sembra che sul versante economico si stia aprendo qualche falla: «Sì, sta costando troppo anche a loro. Un motivo in più perché in Italia non lo vedremo: e chi ce li dà tutti i soldi necessari? Io mi accontenterei che il lavoro fosse maggiormente garantito».