Giovanni Paolo II: In America latina da conquistador

Il primo viaggio di papa Wojtyla fu a Puebla, in Messico, nel gennaio `79. Per affrontare la sua ossessione: la teologia della liberazione. Ma dopo quasi 27 anni di pontificato di guerra e con 4 o 5 cardinali latino-americani «suoi» fra i papabili, quell’obiettivo è fallito
MAURIZIO MATTEUZZI
Chissà se nell’ultimo istante della sua vita terrena Karol Wojtyla sarà stato preso da qualche dubbio. Sull’al-di-là e sull’al-di-qua. Di certo nella sua azione pastorale e politica in America latina, nei quasi 27 anni di pontificato, di dubbi ne ha mostrati pochi. Dopo l’est europeo e la lotta al socialismo, l’America latina e la lotta alla teologia della liberazione sono stati il secondo asse del lungo regno del papa polacco.

L’America latina e la teologia della liberazione. Il primo dei suoi 104 viaggi in 129 paesi del mondo, appena tre mesi dopo l’elezione, fu a Puebla, in Messico, per assistere – e cominciare a mettere mano – al terzo Consiglio espiscopale latino-americano, allora impregnato ancora dalla teologia della liberazione, con la sua «opzione preferenziale per i poveri», uscita dal precedente Celam, quello del 1968 a Medellin, in Colombia. Dopo Puebla, Wojtyla sarebbe ritornato molte altre volte in quello che chiamò «il continente della speranza»: 26 viaggi in America latina, 5 volte in Messico, 4 in Brasile, 2 in Argentina…

Il «papa viaggiatore», il «papa pellegrino» divenne, come scrisse nel `93 l’Osservatore romano preso da un eccesso di zelo, «il più grande evangelizzatore dell’America latina dall’arrivo di Cristoforo Colombo». Un giudizio non condiviso da molti. Il brasiliano Leonardo Boff, uno degli uomini di punta della teologia della liberazione, processato dal sant’uffizio del cardinale Joseph Ratzinger – il Torquemada di Wojtyla considerato uno dei suoi possibili successori -, condannato al «silenzio ossequioso» prima di essere costretto a lasciare la congregazione dei francescani nel `92, ha detto una volta che «questo papa è stato un falgello per la fede» perché «ha defraudato i poveri che non si sono sentiti appoggiati nelle loro cause e nelle loro lotte». E’ un fatto che la chiesa cattolica dell’America latina è stata per oltre vent’annil sotto il tiro implacabile del papa polacco.

Il «continente della speranza» è cambiato molto da quando l’ex-cardinale di Cracovia si presentò come Giovanni Paolo II a Puebla. Lui e il tempo hanno fatto il loro corso. Pensionati d’autorità i brasiliani Evaristo Arns e Helder Camara e il messicano Samuel Ruiz. Via Boff, formalmente dentro la chiesa «il padre della teologia della liberazione», il peruviano Gustavo Gutierrez, costretto però a tacere o a inviare i propri scritti all’arcivescovo di Lima, monsignor José Luis Cipriani, esponente di primo piano dell’Opus Dei tanto cara al papa e compensato con il cappello cardinalizio nel 2001. Muti o fuori anche i preti nicaraguensi che osarono entrare nel primo govermno sandinista, sfidando il vescovo di Managua, Miguel Obando y Bravo, poi promosso anche lui cardinale, e il papa polacco. E’ una delle immagini-simbolo del pontificato di Wojtyla, quella della piazza di Managua nell’83, quando, rosso d’ira, il papa puntò minacciosamente il dito contro il prete Ernesto Cardenal, ministro della cultura, inginocchiato ai suoi piedi, e suo fratello Fernando, ministro dell’istruzione, che gli disse una frase che risuonò in realtà come un atto d’accusa: «Santo padre, è possibile che io stia sbagliando, però mi lasci sbagliare a fianco dei poveri dopo che la chiesa si è sbagliata per tanti secoli al fianco dei ricchi».

Ma Wojtyla rimase sordo. Come sordo e muto, o quasi, rimase di fronte agli assassinii di monsignor Arnulfo Romero, il vescovo di San Salvador, e dei sei padri gesuiti dell’Università centro-americana, massacrati dagli squadroni della morte nel 1980 e nel 1989. Un tipo di martiri e di profeti che al papa polacco non sono mai piaciuti.

Più che un evangelizzatore Giovanni Paolo II in America latina appare come un «conquistador». Forte, duro, autoritario, spietato, messianico. Di un messianesimo però tutto conservatore. Che imponeva alla chiesa latino-americana se non di lasciare il campo sociale, di privilegiare il terreno etico e spirituale. Contando in questo modo di allontanarla dalle pericolose contiguità con il socialismo «ateo e materialista» e di contrastare l’esplosiva crescita delle sette evangeliche che solo in Brasile si mangiano un milione di cattolici l’anno e in tutto il continente della speranza sono ormai il 15% dei 480 milioni di abtitanti.

Sono tante le immagini di Wojtyla in America latina. Immagini-flash che identificano, e spiegano, il suo lungo pontificato e la sua strategia. Sempre coerente. In Argentina nell’82, alla vigilia della disperata avventura della guerra per le Malvine con l’Inghilterra della signora Thatcher che avrebbe provocato, l’anno dopo, la caduta dei militari genocidi (ma lui e il suo nunzio Pio Laghi ci avevano messo anni prima di concedere una fuggevole udienza alle madri della Piazza di maggio che reclamavano per i desaparecidos). In Nicaragua nell’83, quando di fatto si ritrovò in una sorta di convergenza parallela con la criminale politica di Ronald Reagan contro la rivoluzione sandinista. In Cile nell’87, quando la chiesa cilena era alla testa della rivolta popolare contro la dittatura e lui apparve alla finestra del palazzo della Moneda al fianco di Pinochet (per cui poi si sarebbe anche mosso dopo il suo arresto a Londra nel `98). A Haiti nell’86, quando incontrò un Baby-Doc Duvalier ormai agli sgoccioli (ma, prigioniero delle sue ossessioni, fu poi quasi il solo, insieme agli Usa, a riconoscere il regime militare golpista che aveva rovesciato nel `91 il presidente Aristide, allora focoso «prete delle bidonvilles»). Neanche la sua famosa visita a Cuba, in quello stesso 98, uscì dal cliché, quando andò a confrontarsi con l’ultimo bastione del comunismo che aveva tanto contribuito a scardinare nell’est europeo. Una qualche forma di convergenza fra Wojtyla e Fidel sull’opposizione al neo-liberismo capitalista duro e puro, calvinista e materialista; la comune opposizione all’osceno embargo americano; una richiesta imperiosa di spazio e di ruolo per la chiesa cubana in vista del dopo-Castro.

E dopo «el conquistador» Wojtyla, in America latina, che? Nell’ultima infornata di 37 cardinali, nel concistoro del 2001, ne ha nominati 8 dell’America latina. Fra i 117 con diritto di voto nel prossimo conclave – quelli con meno di 80 anni -, 22 sono latino-americani, il secondo contingente più numeroso dopo i 58 europei. Fra i 10-12 papabili ci sono il colombiano di curia Dario Castrillon Hoyos, l’opusdeista peruviano Juan Luis Cipriani, l’honduregno Oscar Andres Rodriguez Madariaga, il brasiliano Claudio Hummes, il cubano Jaime Ortega. Tutti conservatori o moderati.

Sarà latino-americano il prossimo papa? Questa sarebbe una vittoria postuma di Karol Wojtyla. O forse no, neanche questa. Perché pur avendo rivoltato, nei suoi 26 anni di pontificato, la chiesa latino-americana, avendo nominato centinaia di vescovi e decine di cardinali ligi e sicuri, in realtà l’obiettivo intrapreso con quel suo primo e lontanissimo viaggio a Puebla del gennaio `79, è fallito. Non si chiamerà più teologia della liberazione. Però in America latina, il continente della speranza ma anche della povertà e dell’esclusione, la chiesa cattolica ha capito che o sta con i poveri, gli oppressi e gli esclusi, o non ha domani.