Giovani E Comunisti – numero 2 – Conseguenze sociali della Legge 30,

Sintesi di un’inchiesta sulla precarietà

Il lavoro flessibile, nella maggior parte dei casi precario e poco protetto, è ormai un ingrediente strutturale della vita professionale di molti italiani; non solo giovani, ma anche nell’età matura (tra i 33 e i 39 anni). E’ quanto emerge da un’indagine realizzata dall’ istituto di studi politici, economici e sociali Eurispes e condotta, nel periodo 25 novembre 2004-5 gennaio 2005, su un campione rappresentativo di 446 lavoratori atipici di età compresa tra i 18 e i 39 anni. L’indagine, contenuta all’interno del Rapporto Italia 2005, che l’Eurispes ha presentato il 28 gennaio scorso, ha lo scopo, si legge nella presentazione, di verificare l’impatto delle diverse modalità di lavoro atipico su quanti si trovano nella fase di maturità anagrafica in cui in genere si compiono scelte importanti come fare un figlio, sposarsi, andare a vivere da soli. Il 61,7% degli uomini e il 62,8% delle donne tra i lavoratori intervistati dall’istituto affermano di aver sempre lavorato con contratti atipici. Condizione che riguarda non solo la maggior parte (il 57,3%) dei lavoratori più giovani (tra i 18 e i 25 anni), ma anche e soprattutto i lavoratori che hanno ormai raggiunto la piena maturità anagrafica: il 66,9% di quanti hanno un’età compresa tra i 26 e i 32 anni ed il 67,8% di quanti hanno tra i 33 e i 39 anni, per i quali – rilevano i ricercatori dell’Eurispes – l’atipicità ha assunto un carattere permanente e non di primo inserimento nel lavoro. Lo status di lavoratore atipico, inoltre, caratterizza anche la maggior parte del segmento più qualificato dell’offerta di lavoro: il 55,9% degli intervistati in possesso di master o specializzazione post-laurea e l’83,2% dei laureati. La stragrande maggioranza del campione (l’89,7%) è celibe o nubile; appena il 6,5% è sposato, l’1,3% convive ed il 2,5% è divorziato o separato. Estremamente contenuta, tra i lavoratori atipici intervistati, la genitorialità: appena il 6,5% ha uno (3,4%) o più figli (3,1%). Per la maggior parte degli intervistati, il lavoro flessibile non rappresenta, in definitiva, un’opportunità di primo inserimento lavorativo.
«Negli ultimi anni – dichiara Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes – la nostra classe dirigente politica e imprenditoriale ha puntato solo ed esclusivamente sulla flessibilità e sulla riduzione del costo del lavoro come fattori chiave per garantire una maggiore competitività all’impresa italiana, disinvestendo nella ricerca e nell’innovazione tecnologica, ovvero in quelli che, nei sistemi economici avanzati, dovrebbero rappresentare il vero motore dello sviluppo e della crescita. La flessibilità purtroppo – prosegue Fara – in Italia è stata interpretata soltanto come possibilità per l’imprenditore di modificare in qualsiasi momento le condizioni del rapporto di lavoro (e quindi anche le modalità di cessazione del rapporto di lavoro) con il proprio dipendente e non come strumento in grado di rendere flessibile l’organizzazione stessa del lavoro.
Si è trattato – conclude il presidente dell’Eurispes – di un tipo di approccio fallimentare e i risultati, dopo l’edificazione di un modello normativo tutto sommato coerente nei suoi princìpi ispiratori e nei suoi istituti giuridici, sono sotto gli occhi di tutti, viste le performance negative del nostro sistema economico negli ultimi 4 anni».
Contratti
In relazione alla tipologia di contratto, il 27,9% degli intervistati lavora “a progetto”, il 22,9% ha un contratto occasionale ed il 20,9% è un collaboratore coordinato e continuativo. Risulta abbastanza importante, tra gli intervistati, anche la quota di quanti hanno un contratto di tipo subordinato a tempo parziale (13,2%), mentre l’8,5% lavora tramite agenzie interinali ed il 5,4% tramite contratto d’inserimento. Solo il 31,1% del campione lavora da un periodo relativamente breve: dai 6 mesi a un anno (16,1%) o da non oltre i 2 anni (15%). Il 38,6% vanta invece un’esperienza lavorativa pluriennale, tra i 2 e i 3 anni (20%) o tra i 4 e i 5 anni (18,6%), mentre il restante 30,3% lavora da un periodo di tempo ancora più lungo: 5-10 anni (22%) o anche più (8,3%).
Pagamenti irregolari, e bassi
Il 71,5% dei lavoratori atipici intervistati – prosegue lo studio – percepisce lo stipendio mensilmente, mentre il 10,8% viene pagato ogni due, tre mesi, lo 0,7% ogni quattro, cinque mesi e il 5,2% alla consegna del lavoro. L’11,2% del campione, invece, viene pagato senza una cadenza periodica regolare. L’irregolarità dei pagamenti colpisce, in particolare, la componente femminile (12,2%, contro il 9,8% degli uomini) e giovanile (15,5% dei ragazzi tra i 18 e i 25 anni, contro il 3,4% dei 33-39enni) del lavoro atipico. Oltre i 3/4 dei lavoratori atipici (il 76,5%) percepiscono una retribuzione mensile che non supera i 1.000 euro netti. Il dato acquista particolare rilevanza considerando che la maggior parte di essi lavora per un unico datore di lavoro, che rappresenta dunque l’unica fonte di reddito.
Anche in questo caso sono le donne ad essere più penalizzate: ben l’82,9% delle lavoratrici atipiche, infatti, non supera i mille euro al mese, contro il 67,9% degli uomini. Nello specifico, è possibile osservare come il 30% delle donne percepisca non oltre i 400 euro netti mensili (contro il 20,2% della componente maschile), e come i 3/5 delle lavoratrici atipiche non superi gli 800 euro (a fronte di un dato maschile del 48,2%). La retribuzione si attesta sui 1.000-1.400 euro per il 17,1% degli uomini ed il 15% delle donne. Da evidenziare, in particolare, come appena l’1,2% delle lavoratrici atipiche percepisca un compenso più elevato e come nessuna abbia una retribuzione superiore ai 2.000 euro netti mensili. Al contrario, tra gli uomini, ben il 17,5% percepisce oltre 1.400 euro mensili: tra questi, il 5,7% ha una retribuzione compresa tra i 2.000 e i 3.000 euro (2,6%) o superiore (3,1%). Il 20% dei lavoratori con un figlio ed il 20,7% dei coniugati non percepiscono con cadenza regolare lo stipendio, questa irregolarità colpisce la capacità progettuale di quanti la subiscono, esponendoli al rischio di cadere in uno stato concreto di precarietà economica. Neppure l’aumentare di esperienza lavorativa pluriennale consente miglioramenti economici significativi:tra coloro che hanno esperienza lavorativa dai 3 ai 5 anni il 31,3% guadagna dai 600 agli 800 euro netti e tra chi lavora da 5 fino a 10 anni il 25,5% ha una retribuzione mensile di 800/1000 euro netti.
Insoddisfatti delle tutele sociali.
Circa i 2/3 degli intervistati dall’Eurispes (il 65,9%) affermano di essere poco (30,5%) o per niente soddisfatti (35,4%) del proprio compenso economico e appena il 4,7% si dice, al contrario, molto soddisfatto. Sono soprattutto le donne a lamentare una retribuzione insoddisfacente. Va evidenziato, ancora, come una minoranza significativa dei lavoratori intervistati, il 34,3%, lamenti anche l’irregolarità dei pagamenti, nonché, nella maggioranza dei casi, la mancanza di adeguate tutele sociali (malattia, maternità, sicurezza sul lavoro) e sindacali (inerenti, ad esempio, il diritto di sciopero). In particolare, ben il 68,7% del campione afferma di essere insoddisfatto del proprio tipo di contratto sul piano delle tutele sociali ed il 61,7% si dice insoddisfatto delle tutele sindacali.
Circa i 2/3 degli intervistati lamenta la difficoltà di fare progetti o effettuare determinate scelte. Per il 66,1% del campione, infatti, la flessibilità non genera un maggiore controllo sulla propria vita; piuttosto, ostacola la capacità progettuale, minando alla base la possibilità di operare qualsiasi pensiero sul futuro. In riferimento alle tutele di tipo sociale, e in particolare rispetto a quelle sindacali, sono soprattutto le donne a denunciare (il 71,1%, contro il 49,2% degli uomini) un modesto ed inadeguato livello di protezione. Anche in questo caso la percentuale di insoddisfatti, pari al 58,3% tra gli intervistati più giovani, raggiunge valori più elevati in corrispondenza della classe 26-32 anni (64,4%) e 33-39 anni (70,1%). La mancanza di adeguate tutele di tipo sindacale è avvertita dalla maggioranza degli intervistati, indipendentemente dalla specifica tipologia contrattuale, ma è lamentata in particolar modo dai collaboratori a progetto (75,6%).
Il quadro di tutele previste per i lavoratori atipici è da questi ritenuto del tutto inadeguato. Gli intervistati esprimono in modo netto la propria insoddisfazione rispetto al livello di garanzia di alcuni diritti fondamentali, come la maternità, la malattia, la sicurezza sul lavoro, il diritto di sciopero e alla formazione. I lavoratori atipici si sentono poco tutelati soprattutto rispetto al diritto di sciopero, poco (20%) o per niente garantito (70,2%) ad avviso di oltre il 90% del campione, sebbene anche in relazione agli altri diritti sia quasi unanime l’opinione che non esista una tutela sufficiente. In particolare, l’87,9% degli intervistati ritiene che sia poco (36,8%) o per niente garantito (51,1%) ai lavoratori atipici il diritto alla formazione, percentuale solo leggermente superiore a quella di quanti (87,7%) si sentono poco (24,2%) o per niente (63,5%) tutelati in materia di maternità. La malattia è poco (24,7%) o per niente (56,9%) tutelata ad avviso dell’81,6% dei lavoratori atipici, mentre il 75,6% di essi ritiene poco (36,8%) o per niente (38,8%) garantito il diritto alla sicurezza sul lavoro.
Benessere psico/fisico dei lavoratori atipici
Per un numero consistente degli intervistati la precarietà lavorativa condiziona il proprio stato di benessere psicofisico provocando stress, ansia, depressione e/o portando ad una somatizzazione del disagio vissuto. Il 46% soffre spesso o sempre di stress ed il 44,4% sempre o spesso di ansia. Questa vulnerabilità colpisce particolarmente il segmento anagraficamente e professionalmente più maturo(60,9% degli intervistati tra i 33 e i 39 anni soffre d’ansia e il 57,5% di stress);tra i 26 e i 32 anni il 44,3% è ansioso e il 51,5% è stressato;tra i 18 e i 25 anni gli ansiosi scendono al 37,8% e gli stressati al 31%. Sono molto diffusi i disturbi psicofisici di diversa natura:gastrointestinali(il 59,6% ne soffre almeno qualche volta),dolori muscolari(55,8%), stanchezza cronica(45,5%)disturbi alla vista(40,2%), problemi cutanei(38,8%), inappetenza e debolezza(37,2%).Gli intervistati che ritengono molto o abbastanza collegabili questi disturbi alla propria situazione lavorativa sono il 31,6% delle donne e la parte più matura del campione (il 43,6% degli 33/39enni contro il 23,8% dei 26/32enni ed il 13,6% dei 18/25enni). Proprio le donne e i più adulti sono coloro che vivono la precarietà come un ostacolo a compiere scelte di vita importanti, a volte difficilmente procrastinabili, come il fare un figlio.
Incertezza per il futuro e per la propria vecchiaia
La vulnerabilità e l’incertezza del presente viene proiettata nel futuro, che viene visto dal 43% come mediocre o pessimo, il 33,2% lo immagina buono e il 14,6% molto buono. I più ottimisti per la propria situazione economica futura sono gli uomini giovani e gli “junior”, cioè coloro che si trovano ancora all’inizio del proprio percorso lavorativo o sono entrati nel mondo del lavoro da non più di tre anni. Sul lungo periodo i lavoratori atipici manifestano le proprie maggiori preoccupazioni. Il carattere permanente della condizione di lavoratore atipico crea infatti un’insufficienza della copertura previdenziale ai fini pensionistici. Ben il 63,7% ritiene che alla fine del proprio percorso lavorativo la pensione sarà insufficiente a garantirgli una vita dignitosa e solo ¼ confida che sarà sufficiente o discreta. Nessuno conta su una vecchiaia “agiata”. Anche sul piano dell’insufficienza della pensione futura i più pessimisti sono i più maturi anagraficamente (70%) e le donne(71,5%). Particolarmente significativa è la fetta di pessimisti sull’ottenimento della pensione tra i lavoratori ultradecennali(48,6%) e tra quanti lavorano da 3/5 anni(41%). Per ovviare all’incertezza della vecchiaia il 32,5% degli intervistati ha fatto ricorso o vorrebbe garantirsi una pensione integrativa, mentre il 34,5% vorrebbe ma non ci riesce economicamente. In relazione all’età chi non può ricorrere alla pensione integrativa è il 42,3% dei 26/32enni, il 28,7% tra i 33/39enni, il 27,2% dei più giovani. Tra gli ottimisti rispetto al proprio futuro pensionistico ha già fatto ricorso ad una pensione integrativa il 30,2% degli intervistati. Particolarmente allarmante è la condizione di chi, pessimista sulla pensione futura, ha pensato a ricorrere ad una pensione integrativa ma non ha possibilità economiche per farlo. Sono il 34,4% di chi non ritiene la propria pensione sufficiente e ben il 45,7% tra quanti ritengono che non godranno di alcuna pensione al termine della propria vita lavorativa. Intrappolati da un presente di vulnerabilità economica che impedisce loro di tutelare il proprio futuro, milioni di lavoratori atipici sono condannati all’indigenza.