Giovampietro l’eloquenza come teatro

Ieri è morto Renzo Giovampietro. E’ morto non soltanto un attore, ma qualcosa di più e di diverso. Giovampietro era un uomo di implacabile passione civile, un intellettuale che credeva nella funzione educativa del teatro, un polemista impegnato in irriducibili battaglie in nome della poesia e della civiltà. In giugno avrebbe compiuto 82 anni. Era malato da tempo. Si era ritirato dalle scene dopo aver preso parte allo «Zio Vanja» di Cechov diretto da Peter Stein: un’esperienza dalla quale era uscito ammirato. Tutta la compagnia era andata a preparare lo spettacolo in Russia, «per entrare nell’aria locale», e gli era piaciuto. Dopo quell’ultima prova, il ritiro, accudito dalla figlia Antonella, chiamata così perché fu concepita all’ombra della Mole Antonelliana.

C’è sempre stato un legame sentimentale tra Giovampietro e Torino. Per lui, ragioniere della provincia laziale approdato al teatro per spinta irresistibile, Torino era un luogo di alta idealità e di profonda civiltà. Quando vi giunse negli Anni Sessanta per lavorare al Teatro Stabile dopo le primissime prove con Visconti, si legò d’amicizia con Norberto Bobbio, Galante Garrone, Peretti Griva, che occuparono stabilmente il suo orizzonte culturale. Con loro rimase sempre in contatto, con loro scambiava lettere che conservava come un bene prezioso. E quando, verso la fine degli Anni Ottanta, portò al Circolo della Stampa di Torino l’anteprima di un suo spettacolo sugli scritti civili di Leopardi, non mancò di invitare i suoi maestri. Bobbio era indisposto e non poté intervenire. Arrivò Galante Garrone, che ascoltò con attenzione e alla fine s’intrattenne con l’attore in un fittissimo dibattito a due.

Giovampietro era questo: l’incarnazione d’una passione. Per questo motivo prediligeva Vittorio Alfieri. Per questo identico motivo traeva dagli scaffali i grandi oratori greci e li portava in palcoscenico. Lisia era imprescindibile, ma non mancavano il Cicerone delle Verrine, né il «divertente» Apuleio. L’Apologia di Socrate era un suo cavallo di battaglia. Queste erano le gemme a cui Giovampietro teneva in modo speciale. Spettacoli «piccoli» che però richiamavano le folle; gocce di saggezza classica lasciate cadere fra le pieghe di innumerevoli impegni: gli sceneggiati tv di una volta, un po’ di cinema e soprattutto il teatro, che frequentò in tutte le sue forme, anche da direttore, come avvenne nel ‘67, quando fu chiamato allo Stabile di Bolzano. Ma il vero Giovampietro era sul palcoscenico, quando duellava con Alfieri («Saul»), Shakespeare, Kleist. Metteva al servizio dei suoi autori una dizione casta, una voce dal timbro meraviglioso e una teatralità controllatissima. E’ rimasta indimenticabile la sua interpretazione in una «Giovanna d’Arco».

Credeva in ciò che faceva e non avrebbe voluto fare altro. S’appassionava e s’indignava. Scriveva lettere di fuoco ai giornali, non per parlare di sé, ma degli scadimenti civili che lo offendevano. E prima di spedirle telefonava a Torino. Restava ancora qualche amico.