Gino Doné: «Ero sul Granma con Castro e Che Guevara»

L’Ultimo Mohicano è seduto al bar Borsa, di fronte al palazzo del Municipio, sulla piazza grande con gli archi eleganti, per l’occasione praticamente sommersa sotto le infinite bancarelle della fiera del Rosario. L’Ultimo Mohicano è seduto con la sua “ombra” di vino rosso davanti, ha un berretto da baseball nero con ricamato sopra un drappo rosso con le parole «dopo lo esfuerzo, la victoria», una maglietta blu, pantaloni verde oliva quattro tasche e scarpe da ginnastica bianche, occhiali con sottile montatura di metallo. Ha gli occhi azzurri non da ottantaduenne ma da ragazzo, pieni di lampi, capelli più biondi che bianchi, una barba alla Hemingway e sembra uscito da un film. L’Ultimo Mohicano è un “pezzo” di storia. Sono venuta fin qui per incontrarlo, quasi non ci credevo, ma è proprio qui, è proprio lui. Sorpresa reciproca, abbraccio, suona il suo cellulare, «sono qui con una giornalista che è appena arrivata, simpatica, una ficcanaso», ride.
Non ha mai concesso interviste a nessuno, questa è la prima in assoluto, «non ho voluto nemmeno rilasciarla a Matthews, sai quello famoso del New York Times, anche se c’erano pronti sul tavolo diecimila dollari. La do a te, ma non so nemmeno io perché». Ride, gli occhi azzurri divertiti.

Un “pezzo” di storia. E’ Gino Donè, classe 1924, “granmista”. Gino Donè, uno degli ottantadue che, a bordo della celebre “Granma”, hanno fatto Lo Sbarco a Las Coloradas, Cuba, in quel fatale lembo della Provincia d’Oriente, insieme a Fidel Castro e a Che Guevara, 2 dicembre 1956, inizio della Revolucion. Gino Donè in carne ed ossa, uno degli ottantadue, noto agli amici e compagni dell’Associazione Italia-Cuba, molto noto qui dalle sue parti, ma assai meno conosciuto sulla platea nazionale. Un dvd recente lo racconta; il Comune di Bondoni gli ha donato una pergamena; una sezione Pdci di Albenga porta il suo nome e a Milano la manifestazione “per Cuba, contro tutti i terroristi”, lo ha visto e riconosciuto, sabato scorso 30 settembre, come un protagonista e un testimone d’eccezione. Una giornata bellissima, dice lui, «ho camminato per chilometri, un corteo che non finiva più; sono rientrato alle quattro di mattina, però ne valeva la pena».

Sarà uscito da un film? A dire la verità, nessuno mi aveva parlato di lui. La “scoperta” l’ho fatta alla ultima Festa nazionale di Liberazione, quella appena terminata, grazie a un numero del “Granma internacional” in visione al Bar Cubano. Un vistoso richiamo in prima e un articolo che apre la pagina tre con un grosso titolo: «Gino Donè, l’italiano del Granma, ha incontrato finalmente Fidel»; e sotto un testo che così inizia: «Gino Donè, uno degli uomini che accompagnarono Fidel Castro nella spedizione dello yacht Granma il 2 novembre del 1956, si trova a Cuba. Gino ha incontrato e abbracciato il suo comandante in Jefe Fidel Castro a Bayano, durante i festeggiamenti del 26 luglio». L’articolo prosegue, informando che Gino era a Cuba anche per partecipare ad un documentario che è in via di preparazione per i 50 anni del “Desembarco”, nell’ambito del quale «sono stati intervistati 8 dei 13 “espedizionarios” ancora viventi». Tra essi «l’ex partigiano Gino Donè, l’unico straniero vivente, amico del Che, che partecipò all’avventura storica che diede inizio alla Rivoluzione».

Il mio cuore di cronista ha un tuffo, rapido giro di telefonate. Tutto confermato. Gino Donè non è uscito da un film e ha persino un cellulare. E così eccomi, sono qui davanti a lui, a San Donà. Qui, nella sua casa sulla piazza. Una casa che è un piccolo museo. Un corridoio come un sacrario con bandiere cubane e partigiane, foto, Raul giovane, stendardi, manifesto per Frank Pais, uno dei primi caduti, ricordi, cimeli, lui con Gino Strada, un quadro che «doveva essere consegnato al Che», berretti “granmisti”, anche una foto con dedica di Frida Kalo. E il volto di una donna incorniciato sulla parete, «il mio amor». Sua moglie che non c’è più, dice, morta nel 1965. Il ricordo lo commuove, sugli occhi azzurri un velo di malinconia. «Una ragazza di Trinidad, lei era ricca, ma anti-Batista, seguace di Chibas e del Partito Ortodoxo, e da subito schierata con Castro».

Gino è nato a Treviso da una famiglia di contadini – anzi braccianti, precisa – e il suo lessico familiare è affettuoso e delicato (e racconta con cadenza dolce, un misto ispano-veneto, con molte «ostia» in mezzo). «Mia mamma era educata, proletaria, un po’ atea. Anche suo fratello lo era, e antifascista. Tanto che si è dovuto rifugiare in Francia, ed è ritornato solo dopo la Liberazione. Mio papà era gentile (anche mio nonno lo era), e intelligente, sapeva leggere e scrivere, e ha imparato a fare il meccanico».

Gino fa le elementari a San Donà, «non ho studiato, non ho diplomi, facevo corsi per corrispondenza di cultura commerciale, ho imparato a fare il barista, altri mestieri». L’8 settembre coglie Gino sotto le armi, a Pola, 74mo fanteria, vive la tragedia dei soldati italiani nell’Istria occupata dai tedeschi. «Tra difficoltà e pericoli di ogni sorta, rischiando la pelle ogni momento, sono però riuscito ad arrivare a San Donà, sono stato uno dei pochi». Nascosto e aiutato da una famiglia del posto – «una famiglia benestante, di “terratienenti”, ma generosa, generosissima, si chiamava Finnotto, casa loro era la casa di tutti» – Gino riesce a sfuggire ai tedeschi che danno la caccia agli sbandati ed entra in contatto con la missione Nelson e con il gruppo partigiano del comandante Guido, un ingegnere milanese italo americano. I suoi giorni da partigiano, riceverà un encomio firmato gen. Alexander.

Dopo il ’45, e dopo varie vicissitudini, il ragazzo ribelle – «io mi dico anarchico» – prende la via del Nord, Oltralpe, Belgio, Lussemburgo, Germania, facendo mille mestieri, compreso il minatore. Poi una notte, «sarà stato il ’49», si imbarca clandestinamente su una nave della Lauro – «si chiamava Sibilla» – diretta a Cuba. E lì resta, fa il giro di molte città, arriva all’Avana. «Avevo soldi, dollari, ma sono finiti presto, L’Avana era bella, ah se era bella, faceva resuscitare pure le mummie». Lì si sposa con la ragazza “fidelista” di Trinidad, con lei è nel movimento degli studenti ribelli – «passavo notti sulle scalinate dell’Università a sentire Castro» – e dopo il fallito assalto alla caserma Moncada, Gino, grazie al suo passaporto straniero, fa da agente di collegamento tra la resistenza anti-Batista a Cuba e i fratelli Castro, mandati in esilio in Messico. Comunista? Socialista? «No, proletario». E’ uno schieramento etico e politico, il suo – il senso di “appartenenza” a una classe, l’ideale del riscatto sociale, la ribellione alle ingiustizie -; la scelta di stare dalla parte di Castro è anche una scelta di vita.

E viene il tempo della Granma, «che vuol dire Nonna, detto alla cubana». Quel 26 novembre 1956. «Siamo stati in mare non due giorni, ma sei-sette, è stato un viaggio che non augurerei a nessuno. D’inverno, su una barca non certo d’altomare, nel Golfo del Messico prima, poi nel mar dei Caraibi; impacchettati così, in 82. Con armi, bagagli, viveri. Era una barca di “ricreo”, di ricreazione, per la pesca, lo sport; non per una traversata di quel tipo. Però, e fu davvero una gran bella sorpresa, ha mantenuto il mare, addirittura non si è sfasciata. Niente, siamo sbarcati. Siamo sbarcati. Non nel posto designato e non nel giorno programmato, però siamo sbarcati. Non c’era scelta, dovevamo andare, cercare di sfuggire alla motovedetta degli uomini di Batista che ci inseguiva e aveva cominciato a sparare. Ci siamo arenati in un punto, ma non era la spiaggia, solo mangrovie, cespugli, radici, un groviglio impraticabile. Ci sono volute ore e ore per fare un chilometro e raggiungere quella che ci sembrava la terra ferma. Qualcuno è rimasto indietro. Qualcuno è rimasto là per sempre… Alla fine abbiamo raggiunto la spiaggia, sfiniti, affamati, ci siamo raggruppati e ci siamo allontanati da lì. Ci avevano individuato, sparavano. Io sono stato fortunato, ma alcuni dei miei compagni sono morti lì».

Sembra fissare un punto lontano, le parole inseguono i ricordi. «Uno sbarco che non è stato piacevole, ma non mi sono mai disperato. Incoraggiavo i miei uomini, avevo già il mio gruppo assegnato – tutti bravi tiratori, i più bravi e i più indisciplinati – ma non è stato facile per nessuno di noi».

Gino Donè era l’unico italiano – «l’unico europeo», precisa – a bordo della spericolata Nonna; e solo tre gli altri stranieri della spedizione (78 i cubani). Lui li ricorda bene: l’argentino Che Guevara, il messicano Alfonso Guillén Celaya, il dominicano Ramon Mejias de Castillo. «Ma nessuno di loro è più in vita».

Pausa. Emozione. Scorrono le foto, la madre dei due fratelli Bermudes, il valiente timoniere Collado, Baby la moglie di Arsenio, Pichirillo Mejias, il pilota dominicano, e Roberto Roque, e Juan Manuel Marquez, il capitano. Il suo Pantheon privato, Spoon River, albo d’oro e lapide dei Caduti insieme.

Li ricorda bene, li ricorda tutti. «Erano tutti quasi ragazzi, e in maggioranza studenti. Che Guevara era tra i più giovani, insieme a Arsenio Garcia, uno dei superstiti, uno che ha la mente chiara. Il Che aveva un carisma straordinario, una volta che parlava uno si innamorava di lui. Sì, perché aveva qualcosa di magnetico. Gli volevo bene». E il Castro della Granma, come lo ricordi? «Era già avvocato, un buon oratore, l’ha sempre dimostrato. Intelligente, un cervello elettronico. Sapeva prendere le sue decisioni, però mai per spavalderia».

In gran parte studenti sulla Granma, e pressoché tutti del Partito Ortodoxo, nessun comunista, nessun marxista? «No no, nessuno, quello è venuto dopo. Anche Fidel, anche per lui è stato così. Oggi lo è, comunista. Una persona generosa, Castro, un bondadoso, sì. Lui stava bene, veniva da una famiglia benestante, perché doveva preoccuparsi di quelli che non avevano niente? Ma così è successo.

Così è stato, e ancora lo è. C’è chi vuole screditarlo. Ma per me Fidel è sempre Fidel». Modesto, riservato – «non mi piacciono le storie romanzate», dice -, anche un po’ misterioso, Gino cala il sipario. «Dopo il Desembarco? Abbiamo fatto quello che abbiamo potuto, chi in una forma chi in un’altra. Io ero più indicato per starmene lontano, a fare ciò che nella Sierra non avrei potuto fare. C’era bisogno di collegamenti, di notizie, di informazioni, di soldi, di armi. E di molte altre cose ancora. Chi con le armi, chi senza armi, ha fatto quello che doveva. E anch’io».

Profumo di Cohiba, un punto fermo, una conclusione: «Che vuoi sapere di più? Amo la gente».