Proviamo a separare i fatti di domenica dalle amenità fumogene dei soliti noti: la «guerra civile» di Calderoli, l’inevitabile solidarietà del pistolero Cossiga e la difesa a prescindere della polizia da parte di Casini. Che cosa resta? Banalmente, che un agente della stradale, scambiando una presunta rissa tra tifosi per una rapina, spara ad altezza d’uomo su un’automobile e uccide uno che non c’entra. Quello che è successo poi negli stadi era prevedibilissimo e il modo pasticciato con cui l’ineffabile Sgalla, già illustratosi al tempo della Diaz, il questore di Arezzo e autorità varie hanno cercato di gestire le conseguenze dimostra solo l’incapacità di comprendere il fenomeno ultra e in generale la violenza giovanile.
Per cominciare, «errori» come quello di domenica dimostrano la scarsa attenzione dei corpi di polizia per la vita dei cittadini. Gli incidenti ai posti di blocco, i colpi in aria che uccidono i passanti e così via sono innumerevoli in Italia e la sciagurata legge Reale non ha fatto che legittimarli. Inoltre, tutti sanno che in questi casi o scatta l’impunità o comincia il depistaggio. Qui non si tratta solo di mancanza di professionalità, ma di uno stile connaturato allo stato italiano, il quale non fa giudicare e punire mai i suoi uomini quando la fanno grossa. Tutti i dirigenti al tempo del G8 hanno fatto carriera, tranne quello che forse c’entrava di meno, cioè il questore di Genova, nonostante le violenze gratuite, la caccia grossa ai manifestanti pacifici, prove false, reticenze, testimonianze fasulle e così via siano state ampiamente dimostrate dalle indagini. Che la commissione d’inchiesta sui fatti dì Genova non fosse voluta anche da gran parte dell’attuale maggioranza di governo, lo si sapeva. La polizia in Italia è intoccabile e vogliamo vedere se davvero questa volta si andrà fino in fondo, come non è successo con Carlo Giuliani, la morte di Raciti e innumerevoli casi minori.
Ma questo è solo un aspetto della questione. Si direbbe che da anni si sostituisca la comprensione dei fatti con gli slogan a effetto e le definizioni giudiziarie a sensazione. Ipotizzare il terrorismo per i fatti di Roma significa non avere più il senso delle proporzioni. Proprio come dare quattro anni di prigione al marocchino di Torino per un grammo di hashish. Esattamente come scatenare l’odio di massa per i rumeni, salvo poi rimangiarsi in parte un decreto che qualsiasi ente di diritto internazionale giudicherebbe lesivo dei diritti umani. Qui non vediamo alcuna differenza con la gestione della cosiddetta sicurezza da parte del governo Berlusconi. Voce grossa, deportazioni, decreti sull’onda dell’emozione e nessuna capacità di capire. E quindi le emergenze continueranno.
Se le autorità italiane praticassero un po’ di quella «sociologia» che l’intelligentissimo ministro Amato tanto disprezza, saprebbero che il mondo delle curve ha visto emergere negli ultimi dieci anni una significativa novità: l’egemonia dei gruppuscoli di destra e la loro capacità di negoziare con le società di calcio i propri interessi e privilegi in termini di biglietti, visibilità e controllo degli stadi. Questo è il nodo, e non la generica disponibilità delle curve a menare le mani (che più o meno c’è sempre stata). Colpendo il tifo in generale, proibendo le trasferte, trattando le sassaiole, gli scontri o le risse per atti di terrorismo, non si farà altro che rafforzare le avanguardie nere o comunque violente che forse non aspettano altro.
Se il ceto politico, compresa gran parte di quello ora al governo, crederà davvero ai propri slogan a effetto, invece di valutare esattamente le responsabilità, introdurre un po’ di rispetto per la vita tra le forze dell’ordine e comprendere che i fenomeni sociali non si gestiscono per decreto, saranno guai.