Luce, materia, gesto, colore (giallo soprattutto ma non solo) e spazio sono parole chiave per capire il lavoro di Gianni Dessì. Ma non bastano ove si escluda il loro darsi come strumenti di una ricerca che procede ignorando le regole della logica aristotelica, puntando piuttosto sul potere di disvelamento di brusche accelerazioni, simili a strappi aperti sulla superficie pellicolare di una realtà che appare ovvia, ma che ovvia non è. Di questo procedere alogico e ascientifico ma penetrante, per via di interiore forza intuitiva, sono testimonianza le figure enigmatiche, i segni astratti o vagamente mimetici, gli occhi e i segni di “infinito”, i tagli “che affondano” e le esuberanze “che emergono” da una superficie pittorica sempre inquieta e accidentata, gli elementi centrali, come polifemici visori monoculari, e quelli periferici che fuggono verso la periferia, la cornice e lo spazio.
Non sappiamo se Gianni Dessì, cinquantenne artista romano ormai del tutto affermato, riconosca in Giordano Bruno un maestro (sospettiamo di sì). Sicuramente la gran bella mostra inauguratasi al Macro di Roma il 3 febbraio per la cura di Danilo Eccher (in calendario sino al 7 maggio) è coraggiosa ed emozionante e fa pensare allo zampino (si fa per dire) dell’eretico nolano nella formazione di questo pittore-intellettuale, dell’opera del quale è offerta al pubblico un’ampia retrospettiva.
Micro e macrocosmo, sensi e spirito, ragione e intuizione, senso della parte e senso del tutto, entusiasmo creativo (se non “eroico furore”), umanissima curiosità, metodo e improvvisazione, laica disposizione alle ragioni del mistero e ai misteri della ragione, universalismo che affonda le sue radici in una romanità critica e consapevole. L’opera che da più il senso della disposizione di spirito “bruniana” di Dessì, è sicuramente la grande “Camera picta”. Un esempio di intervento “site-specific” ove tutte le caratteristiche del lavoro dell’autore sono presenti, esaltate da uno proiezione della pittura nello spazio che invade per intero la grande stanza del Macro, trasformandola da “mero contenitore” in “universo”. “Attraverso la moltiplicazione del linguaggio pittorico, dei piani e del senso – si legge nella presentazione – l’artista ricompone e arricchisce l’immagine finale” che in ultimo riassorbirà tutte le immagini particolari che la sottendono. Micro e macrocosmo alimentano una cultura che tutto aspira a comprendere, cancellando i confini che tendono arbitrariamente a de-limitare lo scibile e il sensibile. C’è una tensione utopica che non dispiace affatto. Che poi il colore esploso dalla “Camera picta” sia un giallo prepotente che non accetta discussioni, “un giallo – come scrive Eccher – carico, pesante, assorbente, un giallo vellutato, materico, denso, magmatico, un pigmento che compie solitario la fatica recitativa per un’opera sottilmente evocativa e complessa” è cosa che rende ancora più rappresentativa questa magnifica installazione. Il giallo Dessì è un colore-luce sfacciato come una torcia in una stanza buia che apre squarci di chiarore in uno spazio che al buio si pensava disabitato. Il vuoto assoluto non esiste (Democrito lo aveva intuito) e il giallo lo dimostra come aprendo un sipario sul mondo.
Le altre venti grandi opere che documentano più di due decenni di carriera sfidano gli spazi difficili del Macro, anche quando si staccano dal muro e assumono le sembianze di grandi personaggi tridimesionali plasmati con verve espressionistica, anche quando ad essere abbandonato è il tradizionale impasto cromatico (come nel ciclo più recente) per scegliere le fibre sintetiche e la vetroresina. Un ulteriore azzardo che ci consegna una serie di grandi opere sorprendenti per l’ambigua trasparenza delle superfici sulle quali si dispone la pittura di Dessì. Vedere e non vedere, come attraverso la superficie di una lastra di ghiaccio reso opaco dal tempo, che ha intrappolato dentro di sé le polveri e le testimonianze del tempo: ancora una volta c’è spazio per l’occhio, per la mente e per il cuore.
Il giovane artista internazionale che, secondo tradizione, al Macro è affiancato al maestro affermato, stavolta è il giovane argentino Leandro Herlich (classe 1973) il quale dà un’ottima dimostrazione di maturità e di talento. Non descriveremo le sue installazioni perchè sarebbe come svelare il finale di un film giallo. Diremo soltanto che i suoi giochi illusionistici sulla dimensione spazio-tempo ci hanno assai convinto. Uno squarcio aperto oltre i confini delle regole percettive che pretenderebbero che una cosa sia solo quella cosa e nient’altro. Non è così, evidentemente, e Leandro Erlich ce lo dimostra con sottile ironia e una buona dose di produttiva fantasia, richiamandoci alla mente una grande artista troppo poco ricordata. Ci riferiamo ai lavori anomici (anomico dal greco significa “senza legge” – fisica e percettiva in questo caso -) di Cloti Ricciardi della quale ci piacerebbe vedere una mostra al Macro.