Gheddafi e la Libia: perché la sinistra ha sempre bisogno di un nuovo nemico ?

Credo che il giudizio sia unanime: l’incontro di Roma tra Berlusconi e Gheddafi è stato un indecoroso spettacolo circense. Cercherò perciò di non lasciarmi fuorviare dalle penose esibizioni dei due clowns né da quelle dei manutengoli italiani che li hanno blanditi, ripagati da alcuni contratti miliardari conclusi con la “Grande Jamahiryia”. Aggiungo solo che chi conosce la raffinata astuzia araba, è convinto che la teatrale sceneggiata del colonnello libico sia stata attentamente studiata e calibrata a Tripoli a misura del guitto cabarettista, totalmente privo di scrupoli, che attualmente governa e sputtana l’Italia. Ed è stato uno spettacolo sicuramente degno del clima da fine impero che stiamo vivendo.

Però attenzione, un vincitore c’è ed è lui, il colonnello, che è potuto tornare a Tripoli con due risultati attesi da decenni dal popolo libico : il riconoscimento da parte italiana dei misfatti compiuti in epoca coloniale e un assegno di 5 miliardi a parziale risarcimento dei danni subiti. Per capire quanto legittima sia stata questa lunga attesa basta rileggersi i libri di Del Boca che documentano le atrocità del colonialismo italiano in Libia.

E’ perciò Gheddafi che finalmente può dire, con qualche ragione, “missione compiuta”. Da antifascisti non possiamo che compiacerci che l’Italia abbia finalmente riconosciuto i suoi crimini e pagato il suo debito, sia pure con mezzo secolo di ritardo. E’ stata questa conclusione che ha fatto infuriare la destra. Quello che invece ha scandalizzato il popolo di sinistra è stata l’adesione della Libia alla politica razzista dei “respingimenti”. Sono ragioni ovviamente opposte, ma che hanno paradossalmente e involontariamente accostato (per qualche istante) destra e sinistra nella protesta contro Gheddafi, creando un po’ di confusione e qualche scaramuccia in famiglia. Però prima di ricacciare la Libia tra i paesi dell’ “asse del male” vale la pena di ragionare con calma.

Essendoci formati alla scuola di un mondo politico in cui la realpolitik è sempre stata praticata con molta intelligenza tattica, col fine di ottenere poi vantaggi strategici, prima di emettere giudizi avventati, è meglio sollevare lo sguardo, collocare il problema Libia nella sua dimensione storica, osservare l’evolversi dei rapporti di forza, elencare i pro e i contro e poi decidere se Gheddafi e i “comitati rivoluzionari” libici siano diventati una forma di potere reazionario omologabile alla Triade imperialista, come lo sono i paesi islamici asserviti a Washington.

A giudicare da ciò che ha scritto Richard A.Clarke nel suo libro Contro tutti i nemici, edito da Longanesi nel 2004, la Libia ha continuato a restare iscritta, con un posto di riguardo, nella lista degli Stati canaglia almeno fino al 2003. L’autore è uno che se intende. Ex coordinatore dei servizi antiterrorismo USA (è stato licenziato da Bush nel 2003), nella lunga escursione di 350 pagine che compie dentro la guerra americana al terrorismo da lui diretta, non c’è una sola parola che lasci supporre che qualche mese dopo lo stesso Bush cominciasse a lisciare il pelo a Gheddafi contro il quale si erano spesi (anche con rappresaglie militari) ben quattro presidenti degli Stati Uniti d’America. Invece qualcosa è successo.

Dopo parecchi anni di embargo e di isolamento politico internazionale, sostenuti dalla Libia con dignità e senza mai rinunciare al suo tradizionale atteggiamento di sfida antimperialista, la simultanea e improvvisa decisione di sistemare al ribasso le tensioni e i conflitti che l’hanno opposta per molti anni a Washington, Londra, Parigi e Berlino ha destato non poca sorpresa. Non tanto per le sue finalità, più che comprensibili in nome della realpolitik, quanto per le sue inconsuete modalità. Ma quello che più ha stupito è che, dopo essere stato per decenni paladino dei diritti degli africani, Gheddafi abbia sottoscritto con Berlusconi una collaborazione politica e militare per bloccare il “cammino della speranza” di migliaia di africani verso l’Italia e l’Europa che lascia loro come unica alternativa quella di affogare nel Mediterraneo o di finire in un lager libico.

Ad essere sinceri, le spettacolari iniziative cui ci ha abituato il colonnello libico in più di trent’anni non hanno mai mancato di sorprendere e le sue “svolte” sono spesso apparse indecifrabili ai comuni mortali. Anzi, più volte, la coerenza dei suoi pur avanzati progetti politici e sociali è apparsa viziata da improvvise e sconcertanti contraddizioni. Tra le tante ricordiamo che, al pari di Nasser, non è mai stato tenero in casa sua con i comunisti, anzi, come il suo collega egiziano e in nome di Allah, li ha messi in galera ed entrambi hanno aiutato certi regimi africani e arabi a reprimerli duramente nei loro paesi.

E tuttavia non si può non riconoscere il ruolo propulsore svolto dalla Libia sul piano internazionale da quando il 1° settembre 1969 il giovane colonnello Gheddafi rovescia con un colpo di stato la monarchia di Re Idris, proclama la repubblica, sloggia le basi americane dal paese, adotta una linea di unità panaraba di ispirazione nasseriana e si schiera su una linea di politica internazionale decisamente antimperialista.

Ma la vera svolta sociale e politica interna viene compiuta nel 1976 con la pubblicazione del Libro Verde. Un’autentica bomba che sconvolge le precedenti letture del Corano e propone l’Islam quale fonte di ispirazione di un profondo rinnovamento sociale e politico. L’esatto contrario dell’uso fatto del Corano dai tirannici regimi del mondo arabo e dall’integralismo islamico e perciò considerato un esempio contagioso e pericoloso dalle cancellerie occidentali proprio perché ha fatto della Libia il paese socialmente più avanzato del mondo arabo.

Ricordo le vivaci discussioni avute a Tripoli, insieme al compianto compagno Guido Valabrega, con i dirigenti libici dell’Istituto del Libro Verde, per capire da parte nostra se esistesse una possibile assonanza, ostinatamente negata dai nostri interlocutori, tra il pensiero “socialista libico” e quello, un po’ più antico ma non meno avanzato, espresso dal pensiero marxista. Rispettosi come sempre delle diverse culture politiche che hanno alimentato i movimenti anticoloniali in Africa, convenimmo, parafrasando Deng,, che tutto sommato il colore del gatto poco importava : poteva essere rosso/comunista e verde/islamico purché mirasse allo stesso fine liberatorio.

E su molti punti il Libro Verde non ha deluso le aspettative aprendo alla Libia una “terza via” del tutto sconosciuta al mondo arabo che ha introdotto pesanti limitazione alla proprietà terriera e immobiliare, la nazionalizzazione delle grandi imprese, l’accesso dei salariati alla comproprietà delle aziende private, l’alfabetizzazione di massa, la promozione sociale delle donne (fino agli alti gradi della gerarchia militare) ecc.

Altrettanto dirompenti le conseguenze sul piano internazionale, soprattutto in Africa. Non a caso Gheddafi “l’africano” è diventato uno dei leaders più popolari e rispettati di tutto il continente nero. Sostenitore da sempre della causa palestinese, il suo incitamento a rompere le relazioni con Israele è stato l’asse centrale della sua politica africana nel periodo in cui l’OLP aveva il vento in poppa a nord e a sud del Sahara. Nel 1973 ben 23 paesi africani furono convinti a sospendere o a rompere le relazioni diplomatiche con Tel Aviv.

Con altrettanto impegno il leader libico ha proclamato ed attuato il pieno sostegno del suo paese ai movimenti di liberazione anticoloniali, o presunti tali, compiendo anche clamorosi errori, come ad esempio la mini invasione del confinante Ciad e il sostegno offerto al tiranno ugandese Idi Amin Dada. Ciò non toglie che l’ANC sudafricana, la Swapo in Namibia, lo Zapu in Zimbabwe e altri movimenti africani debbano molto al sostegno politico e materiale del leader di Tripoli. Meriti che sono stati riconosciuti con molta enfasi da Nelson Mandela.

Costantemente alla ricerca di pretesti per liquidare uno dei suoi nemici più ingombranti, l’Occidente non ha esitato ad accusare Gheddafi di ogni genere di misfatti e di connivenza con tutti i terroristi del pianeta. La soluzione finale è stata tentata nel 1986 con il bombardamento di Tripoli. Il bersaglio principale fu mancato ma alcuni suoi famigliari perirono sotto le macerie. Anche la strage di Ustica fu il maldestro tentativo della Nato di abbattere un aereo libico con a bordo Gheddafi.

Gli stessi tentativi di sollevazione contro Gheddafi compiuti nel 1996 a Tripoli dagli integralisti islamici legati a Bin Laden, duramente repressi dal deciso intervento dei Comitati rivoluzionari, sono da attribuirsi agli input, non solo virtuali, arrivati dalla Casa Bianca e dalla CIA. Insomma, una storia infinita di aggressioni militari e tentativi di colpi di stato nella vana attesa di un Termidoro libico. Ma è stato come aspettare Godot.

Non è azzardato supporre che, fallite le maniere forti, i servizi segreti dei paesi Nato più coinvolti nello sfruttamento delle risorse africane (petrolio in primis), individuati i vizi, le debolezze e le ambizioni personali di alcuni membri dell’establishment, abbiano scelto mezzi meno cruenti ma più efficaci per ricondurre la Libia al rispetto delle regole imposte dai dominatori del pianeta. Il primo risultato di queste pressioni è stata la svolta economica liberista annunciata dal governo di Tripoli nel 2001 capeggiato dal primogenito del colonnello, Seif al-Islam, e dal primo ministro ultra liberista Shucri Ghanem.

Poi è arrivata la svolta in politica estera che alcuni giudicano un vera e propria resa all’Occidente. Non è dato di sapere quale sia stata la merce di scambio richiesta a Tripoli in cambio di una sua assoluzione per i delitti commessi da suoi presunti agenti (accusa peraltro mai provata) che avrebbe provocato le tragedie aeree di Lockerbie, del Niger e quella della discoteca di Berlino. Difficile credere che le sanguinose querelles siano state chiuse solo con i risarcimenti milionari ai parenti delle vittime. Da quello che è trapelato non pare che questo modo di saldare un debito, la cui esistenza è sempre stata negata, abbia avuto un alto indice di gradimento popolare in Libia.

Presentata come necessaria per reintegrare la Libia nella comunità internazionale, questa correzione di rotta non ha incontrato all’inizio troppa resistenza nel popolo della Jamahiryia Ma i fatti successivi hanno mostrato invece che la “svolta di Tripoli” mostrava i segni di una pericolosa scivolata filo imperialista. Ed è stato a quel punto che i Comitati rivoluzionari (struttura storica che gestisce ai vari livelli il potere popolare), colti in un primo tempo alla sprovvista, hanno cominciato a mostrare gli artigli proclamando, in nome del popolo libico, che un voltafaccia di 180 gradi nel paese del Libro Verde era una cosa inconcepibile. La risposta è esplosa in modo aperto, anche con grandi manifestazioni di massa e con decise ingiunzioni al governo di Tripoli: non si gira impunemente la schiena a tre decenni di tensioni rivoluzionarie, quali che siano le convenienze e i colpi di teatro del capo dello Stato libico ogni volta che valica le frontiere per giustificare, una volta rientrato a Tripoli, le sue capriole politiche. Gli analisti politici più avvertiti sostengono che con queste strutture popolari l’establishement della Jamahiryia dovrà continuare a fare i conti e la “svolta”, così come è stata venduta all’estero, non sarà una tranquilla e innocua passeggiata.

Non sono poche perciò le ragioni che suggeriscono cautela da parte nostra su un tema assai complesso. Le critiche sono legittime, ma saranno le istituzioni del popolo libico a decidere con quali argomenti e con quale intensità condurre la battaglia politica contro le tendenze negative emerse nel loro paese.