Gerusalemme, ruspe d’apartheid

La famiglia Abed – padre, madre e una bimba di tre anni – è rimasta senza una casa. Quella che aveva costruito tre anni fa illegalmente nel quartiere di Issawiya, vicino al Monte degli Ulivi, qualche giorno fa è stata ridotta in macerie dai bulldozer del comune di Gerusalemme. Gli Abed sapevano che prima o poi sarebbe accaduto, ma fino all’ultimo hanno sperato di non veder arrivare le enormi ruspe usate dalla autorità israeliane. In questi ultimi mesi è stato un susseguirsi di emozioni, di paura e sospiri di sollievo, ma alla fine la sentenza è stata eseguita. Raccontano di aver avuto solo il tempo di portar via poche cose: qualche materasso, la culla della piccola, una cassettiera e poca altra roba. Poi il braccio meccanico del bulldozer ha cominciato ad abbattere la loro abitazione lasciandoli sgomenti, senza parole, consapevoli di dover ricominciare tutto dall’inizio. E non sarà facile.
Ora sono a casa di parenti che si sono dovuti adattare, anche loro, a vivere in condizioni dure, undici persone in pochi metri quadrati, ma in questi casi la solidarietà tra palestinesi è d’obbligo. La demolizione delle case costruite illegalmente è un problema che colpisce a fondo la popolazione araba di Gerusalemme e rappresenta una delle manifestazioni più importanti e devastanti dell’occupazione israeliana cominciata quasi 40 anni fa. Un problema acuito dalla costruzione del muro che ora circonda l’intera Gerusalemme Est.
I permessi, pochi e costosi
Quella che le autorità comunali descrivono come una politica giusta, volta unicamente a mettere fine agli abusi edilizi compiuti da palestinesi, in realtà è anche, se non soprattutto, uno strumento per contenere l’aumento della popolazione araba (ora circa il 30%) e costringerla a lasciare la città per trasferirsi definitivamente in Cisgiordania. I palestinesi ammettono di costruire molto spesso illegalmente, ma aggiungono di non poter fare diversamente poiché le autorità israeliane continuano a concedere pochi (e costosi) permessi edilizi a Gerusalemme est costringendo tante famiglie a rischiare pur di avere una casa o di allargare quella che già possiedono.
Il 2006 ha fatto segnare una diminuzione del numero delle demolizioni a Gerusalemme est: 81 (di cui solo 63 erano case vere e proprie), contro le 152 del 2004 e 194 del 2005. Il nuovo anno però ha visto i bulldozer (quasi sempre Caterpillar ma anche Volvo) del municipio tornare nuovamente da protagonisti sulla scena cittadina.
Attivisti anti-demolizioni
«In appena 20 giorni abbiamo già assistito alla distruzione di cinque abitazioni e il resto del 2007 potrebbe rivelarsi durissimo per la popolazione palestinese», teme il giornalista Meir Margalit, che per conto dell’Icahd (Comitato israeliano contro la demolizione delle case) ha svolto numerose inchieste sulla politica del comune nella zona araba di Gerusalemme. Margalit e il resto dell’Icahd giudicano pericolose le dichiarazioni di alcuni funzionari del comune, riportate nelle settimane passate con evidenza dalla stampa locale, a proposito della «necessità» di continuare ad usare il pugno di ferro contro i palestinesi che costruiscono senza alcun permesso edilizio.
Le demolizioni minacciate sono molte decine e a destare preoccupazione sono anche i progetti riguardanti i lavori della tangenziale orientale che potrebbero portare alla distruzione di molte abitazioni a Wadi Kadoum e, ancora una volta, a Silwan, ai piedi della Città Vecchia, che già da un anno e mezzo vive nell’incubo della demolizione di 88 case annunciata dal comune che in quella zona, di grande interesse biblico e dove i coloni israeliani si sono già infiltrati in profondità, intende dare vita ad un parco archeologico. Secondo i ricercatori dell’Icahd il calo del numero degli edifici illegali abbattuti non è da attribuire, come sostiene l’amministrazione comunale, alla riduzione delle attività edilizie abusive dei palestinesi, ora più timorosi di qualche anno fa della risposta delle autorità. Piuttosto, scrive il comitato israeliano, la spiegazione sta nell’uscita di scena temporanea o definitiva di tre importanti funzionari del comune protagonisti della campagna di demolizioni negli anni passati: Micha Ben-Nun, capo del dipartimento ispettivo, che ha dato le dimissioni per motivi giudiziari; l’ingegnere Uri Shitrit che ha concluso il suo contratto; Yossi Havilio, consulente legale del municipio, entrato in conflitto con il sindaco (Uri Lupoliansky) e quindi costretto a farsi da parte. Tutto ciò, spiega l’Icahd, ha portato ad una lunga paralisi del sistema di ispezioni e alla conseguente riduzione delle demolizioni. Ma le cose sono destinate a cambiare in peggio mentre i palestinesi – in costante aumento anche per il ritorno nei confini municipali di Gerusalemme – dopo la costruzione del muro – di migliaia di residenti che vivevano in Cisgiordania, continueranno a costruire abusivamente di fronte all’esiguo numero di permessi edilizi che il comune concede annualmente alla zona araba della città. A conferma della politica discriminatoria che le autorità israeliane attuano nei confronti dei palestinesi di Gerusalemme, c’è anche l’ultimo rapporto ufficiale del «Controllore del Municipio» che sottolinea come l’amministrazione comunale sia particolarmente sollecita nel demolire gli edifici illegali palestinesi mentre si mostra più tollerante e paziente quando gli abusi edilizi avvengono nella parte ebraica (ovest) della città.
Una politica discriminatoria
Il controllore cita il biennio 2004-05: degli 85 ordini di demolizione riguardanti Gerusalemme ovest solo 39 sono stati attuati (45%): dei 233 per la zona est invece ne sono stati eseguiti 191 (82%). Il rapporto aggiunge che non sempre le procedure seguite per le distruzioni degli edifici palestinesi sono state rispettose delle disposizioni ufficiali. Insomma i funzionari comunali avevano fretta di ridurre in macerie quelle case arabe e se la prendevano comoda quando gli «abusivi» erano israeliani.
Anche nella Gerusalemme araba tuttavia alcuni violano la legge senza incorrere in sanzioni: i coloni israeliani estremisti, quelli che vivono solo per «riconquistare» la città vecchia e toglierla ai palestinesi. «Silwan è una delle località vicine alla Città Vecchia dove è quasi impossibile ottenere un permesso edilizio, a causa della sua importanza archeologica storica – spiega Meir Margalit – i palestinesi che hanno cercato di allargare le loro abitazioni, hanno subito fatto i conti con la reazione del comune. Al contrario negli ultimi anni le enclavi create dai coloni a Silwan sono diventate più grandi, gli edifici più alti, senza alcuna autorizzazione edilizia. Il comune però non ha mai esercitato la sua autorità per fermare o demolire queste nuove costruzioni». Nel frattempo la fame di nuove abitazioni cresce ovunque nella zona araba di Gerusalemme. Soprattutto le giovani coppie cercano un tetto ma nella maggior parte dei casi quelli disponibili sono troppo cari per le loro tasche. Non è irrilevante peraltro l’atteggiamento di non pochi esponenti di importanti famiglie arabe che, di fatto, fondano parte delle loro fortune economiche sulla riscossione dell’affitto mensile delle loro tante abitazioni sparse nei quartieri residenziali di Sheikh Jarrah, Shuffat e Beit Hanina. Questi palestinesi non vogliono arabi nelle loro abitazioni ma solo stranieri, preferibilmente funzionari delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali, che possono pagare di più (mediamente 2.000-2.500 dollari) e rispetto ai palestinesi rimangono per periodi brevi, due-tre anni, liberando velocemente le abitazioni.
Niente alternative per i più poveri
I palestinesi di Gerusalemme con qualche possibilità economica in più hanno solo due possibilità: costruire (in genere più famiglie) un edificio abusivo sperando che il municipio si accontenti di una multa salata e rinunci alla demolizione oppure cercare una delle poche case in affitto disponibili. I più poveri invece non hanno alternative se non quella di vivere nella casa dei genitori, con altri fratelli sposati, con mogli e figli, tutti insieme (spesso 10-15 persone). Altri ancora non possono permettersi più di un paio di stanze in subaffitto nella Città Vecchia oppure nel misero campo profughi di Shuffat, nella zona nord-est di Gerusalemme.
Come Raed Yusef Atwan, sposato e padre di quattro figli. «Con il mio lavoro di venditore ambulante non ho trovato altro che tre piccole stanze con una cucina qui nella casa di profughi che ora vivono con i genitori. Non potevo permettermi di pagare i 400-500 dollari al mese, anche di più, che pretendono in città. Io con quei soldi ci sfamo moglie e figli», racconta. La carenza di case disponibili quindi ha portato dozzine di famiglie senza un tetto a cercarne uno nel campo per rifugiati della città. I profughi a loro volta hanno intuito il business e molti ora preferiscono affittare le loro case, adattandosi a vivere in condizioni ancora più dure di quelle abituali, a casa di parenti e genitori. Nessuno nel frattempo ferma i Caterpillar.