Gernika 70 anni dopo: il simbolo, la propaganda, il mito e gli scoop

Nel pomeriggio del 26 aprile 1937 Gernika fu bombardata e in gran parte distrutta dall’aviazione tedesca della Legione Condor. All’impresa contribuirono tre Savoia S 79 dell’Aviazione legionaria italiana. A Gernika si trovava (e trova) l’albero in prossimità del quale, stando alla tradizione, i re spagnoli si erano per secoli impegnati al rispetto degli antichi privilegi (diritti, secondo il nazionalismo basco) di quei territori, in cambio di lealtà alla monarchia. Gernika era dunque un simbolo. I baschi vantavano profonde tradizioni cattoliche e dall’inizio del secolo in molti votavano il Partito nazionalista basco (Pnv), d’orientamento cattolico-confessionale, che il centralismo della destra spagnola aveva spostato, alla metà degli anni Trenta, su posizioni democratiche e antifasciste. Dal governo di Fronte popolare i baschi avevano ottenuto nel 1936 una forte autonomia amministrativa e, anche per questo motivo, il Pnv si era schierato a difesa della Repubblica contro i generali ribelli. Una scelta che i vescovi spagnoli e la Santa Sede avevano giudicato contro natura, intervenendo in vario modo affinché il Pnv si dissociasse dal Fronte popolare. Oltre che un simbolo, Gernika era anche un obiettivo strategico: per la vicinanza al fronte, come snodo stradale, ferroviario e la presenza di impianti industriali. Tutti gli obiettivi rimasero, però, illesi. Gernika non fu la prima città (e neppure la prima città basca) a essere bombardata. Era già toccato a Madrid e, il 31 marzo ’37, alla località basca di Durango, dove morirono anche 14 suore e un sacerdote.
In una guerra ideologica, di immagini e di propaganda quale fu la guerra spagnola, il bombardamento di Gernika venne subito capitalizzato dal governo basco e dalla Repubblica. Vi contribuirono un prete basco, un giornalista inglese e, appena qualche tempo dopo, un artista. Il prete era Alberto Onaidía, testimone oculare del bombardameno del quale riferì due giorni dopo a Parigi nel corso di un’affollata conferenza. Il giornalista era G.L. Steer che ne scrisse, non senza enfasi, su The Times il 28 aprile. L’artista, com’è noto, si chiamava Picasso e con la sua enorme tela all’Esposizione Universale di Parigi del ‘37 rese imperituro l’episodio.
Colte di sorpresa dal clamore internazionale suscitato dal bombardamento, le autorità franchiste cercarono di porvi riparo, fornendo una versione del tutto diversa. Dissero che la città era stata distrutta dalle truppe basche in ritirata, nel tentativo di fare terra bruciata di fronte all’avanzare dell’esercito nemico. Della versione franchista si fece, tra gli altri, immediato interprete L’Osservatore romano che il 1º maggio informava dell’ingresso del generale Mola a Gernika affermando che la città era apparsa quasi completamente rasa al suolo dalla furia devastatrice dei rossi che prima di abbandonarla l’avevano data alle fiamme. In una nota del giorno successivo il giornale vaticano dava notizia dell’invito rivolto da Franco ai corrispondenti stranieri di recarsi nella cittadina affinché vedessero che gli edifici erano stati abbattuti non dagli aerei ma dall’«orda al servizio della Repubblica basca». Solo il 5 maggio L’Osservatore romano riportò la notizia di un giornale olandese che attribuiva la distruzione di Gernika non a Franco o ai baschi in ritirata, ma a «settori comunisti». Era il primo cenno al fatto che la cittadina potesse essere stata bombardata dai nemici della Repubblica e, come costume del giornale, la notizia era fatta trapelare attraverso la sua smentita.
La falsificazione franchista e l’avvallo che essa ricette dalle autorità ecclesiastiche provocò lo sdegno degli intellettuali cattolici europei che, non pensando che la guerra civile fosse una crociata, si stavano battendo contro l’appoggio fornito dalla Chiesa a Franco. Il 1º maggio apparve su Esprit una nota di Mounier nella quale si leggeva che a Gernika una massa di cattolici era stata braccata da aerei cattolici al servizio del cattolicesimo. L’11 maggio, su sollecitazione del presidente basco Aguirre, oltre venti preti baschi scrivevano al papa per confermare la versione del loro governo e per denunciare come diffamante l’attribuzione della distruzione della città ai baschi. Su L’Aube del 2 giugno, fu poi don Sturzo a interrogarsi sul significato di Gernika a partire dalla testimonianza di Onaindía.
Solo negli anni Sessanta il regime franchista ripiegò dall’originaria versione, non più sostenibile, a quella secondo cui il bombardamento sarebbe sì stato opera dell’aviazione nazista e fascista, ma che avrebbe operato all’insaputa di Franco e dei suoi sodali.
Sulla distruzione della cittadina basca esiste un cospicuo deposito di letteratura, di fronte al quale non è agevole orientarsi. All’iniziale produzione propagandistica proveniente dai due campi, si aggiunse poi quella di marca franchista. Solo fuori della Spagna (per ovvie ragioni) e solo dopo la morte del dittatore nel paese iberico fiorirono ricerche storiograficamente attendibili. Tra i primi a soffermarsi sul mito costruito attorno ai Paesi baschi il nostro Aldo Garosci che nel pioneristico Gli intellettuali e la guerra di Spagna (1959) spiegò i motivi per i quali l’«anomalia basca» si era mirabilmente prestata «alla propaganda, alla trasformazione in simbolo», avvertendo che dei vari miti, quello basco era stato il «più deformato dalla propaganda, quello adoperato più frammentariamente e in modo meno coerente». Sarebbero poi venuti gli studi di K. Maier (1975), H.R. Southworth (1977), Á. Viñas (1984) a tutt’oggi insuperati, sia dalla storiografia neofranchista, V. Talón (1977), sia dai cosiddetti revisionisti (P. Moa, 2003), con le loro propaggini italiane.
Su molti aspetti della vicenda i dubbi, più che leciti, restano d’obbligo, anche perché la documentazione di parte tedesca è andata distrutta in seguito ai bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale. Incerto il numero delle vittime, che il governo basco quantificò allora in 1654 e, nel 1972, lo storico militare franchista, J. Salas Larrazábal, in 126, la cifra più ricorrente e credibile ruota attorno alle 250-300, senza contare i feriti. Forti dubbi permangono sulla volontà di colpire il simbolo, mentre ragionevoli appaiono quelli relativi al mitragliamento della popolazione civile. Pochi o nessuno, invece, sull’uso di bombe incendiarie alla termite (responsabili della distruzione della cittadina) e sulla conoscenza previa che i comandi franchisti ebbero dell’iniziativa. Con tutto ciò, la versione franchista resiste pervicace. Basti pensare che nel 1995 Vittorio Messori scriveva che se la città rimase semidiroccata fu perché «prima di ritirarsi i socialcomunisti e gli anarchici cosparsero di benzina tutto ciò che potevano e vi diedero fuoco» e che era provato «che i minatori anarchici delle Asturie, fuggendo, fecero saltare con la dinamite […], molti edifici per creare ostacoli alle truppe franchiste» ( Le cose della vita ,1995, p. 195). Una versione sulla quale lo stesso Messori ha glissato sul Corriere della Sera del 28 dicembre 2003, quando ha attribuito la distruzione della città al ritardo con cui i pompieri giunsero da Bilbao. Due veri e propri scoop, non c’è che dire.