Germania 1921, la sconfitta

Il 1921 segna un momento cruciale nella strategia internazionale dei partiti comunisti. C’è da registrare, innanzitutto, una fase di stallo delle prospettive rivoluzionarie in occidente, in Germania e in Italia soprattutto. E poi la situazione precaria della Russia sovietica: il pericolo dell’invasione degli eserciti stranieri è stato respinto, ma resta il problema della costruzione dello stato socialista, della sua modernizzazione, dei rapporti fra città e campagna. Lenin è spinto ad adottare la Nep, la nuova politica economica, e a reintrodurre alcuni elementi di mercato e di libertà di commercio a favore dei contadini. A molti dirigenti socialisti del tempo la rivoluzione russa sembra una forzatura contro le leggi della storia. Gramsci parla di una “rivoluzione contro il Capitale” che salta i tempi del capitalismo e della democrazia borghese: è un segno del primato della politica, del partito, dell’organizzazione delle masse. Per Lenin il salto in avanti è giustificato dalla situazione storica, dalla fase imperialista del capitalismo. L’economia è ormai mondializzata. Le crisi di sovrapproduzione hanno portato alla nascita dei grandi monopoli, al dominio del capitale finanziario e alla competizione degli stati militaristi per la conquista di colonie e mercati stranieri. La guerra totale e la ripartizione dell’intera superficie terrestre sono le conseguenze ultime dei processi capitalistici. D’altra parte, lo sviluppo interno dei paesi avanzati e la situazione dei paesi arretrati sono così legati tra loro dall’economia da rendere interdipendente la lotta di classe nel mondo. Perciò la classe operaia può svolgere un ruolo fondamentale anche in un paese come la Russia, “anello debole” della catena. Fare la rivoluzione anche dove le condizioni oggettive sono insufficienti è una “forzatura” che tuttavia può servire a far precipitare la crisi anche nei paesi capitalistici sviluppati e, quindi, a far avanzare la rivoluzione mondiale. Il riferimento obbligatorio è la Germania. È dalle condizioni oggettive e dalla maturità del movimento operaio tedesco che dipendono le sorti di una rivoluzione a carattere mondiale. Ed è proprio la Germania il paese a capitalismo sviluppato in cui le condizioni per una rivoluzione socialista sembrano più mature che altrove. Qui la produzione industriale e lo sviluppo economico toccano livelli da primato. Qui imperialismo e guerra hanno seminato soltanto effetti distruttivi. Qui, per effetto della grande industria, si è formato un proletariato consistente, organizzato in uno dei partiti socialisti più forti del mondo. Qui, la situazione politica è densa di contraddizioni per via di una storia del tutto peculiare: la Germania non ha avuto una vera e propria rivoluzione borghese. La borghesia tedesca, nonostante il suo primato economico, non assume l’iniziativa di una rivoluzione democratica e popolare, ma si affida alla protezione dell’assolutismo prussiano. Il blocco sociale dominante è assai eterogeneo: borghesia industriale, aristocrazia terriera, esercito, monarchia. L’unica forza sociale, politicamente organizzata, che può attivare un processo di trasformazione del paese è il proletariato. Ma nel 1921 si ha la percezione di una passività dei lavoratori tedeschi che spinge il partito comunista a una brusca accelerazione, a radicalizzare la lotta di classe e a mettere in movimento le masse al di fuori di ogni quadro di alleanze con altre forze. Ha inizio così la cosiddetta “azione di marzo”, dal 19 al 30, un tentativo disperato di insurrezione guidato dai soli comunisti che coinvolge più di centomila operai della regione mineraria di Mansfeld. La tesi che le condizioni sarebbero mature per una grande offensiva e che la rivoluzione si sarebbe propagata con effetti a catena, in maniera irresistibile, si rivela ben presto illusoria. La rivolta armata degli operai non si estende al resto del paese, lo sciopero generale proclamato dai comunisti fallisce, e in dieci giorni di combattimenti sanguinosi centinaia di minatori vengono uccisi dalla polizia, mentre i militanti arrestati sono settemila.

“Forzare lo sviluppo della rivoluzione”.

La situazione in occidente sta rapidamente cambiando. La reazione comincia a farsi sentire: in Italia le squadre d’azione fasciste introducono un elemento nuovo nella lotta politica, quello del sovversivismo di destra che, come bersaglio, ha fin dall’inizio le organizzazioni operaie e che riesce a coinvolgere nella propria base di consenso i ceti medi della città e della campagna. Nel frattempo, a seguito dei limiti politici emersi durante le occupazioni delle fabbriche al nord, c’è la scissione dei socialisti al congresso di Livorno: nasce il Pcd’I. La scissione italiana provoca, di riflesso, un nodo di problemi strategici nel movimento operaio internazionale. Ma è in particolare nel gruppo dirigente dei comunisti tedeschi che si apre una crisi profonda: il comitato centrale si spacca fra chi è favorevole a una politica unitaria di alleanze con i socialdemocratici e chi sostiene invece la necessità di una accelerazione, di un’offensiva rivoluzionaria. La questione non è di poco conto. È in gioco non solo l’analisi dello stato di salute del capitalismo occidentale, ma le sorti stesse e la sopravvivenza della rivoluzione in Russia. Si tratta di capire se la situazione in occidente sia ancora matura per sferrare un’offensiva delle classi subalterne, diretta soltanto dai partiti comunisti, o se invece non vi siano segnali di una reazione che soltanto adesso inizia a manifestare alcuni aspetti inediti quali il fascismo in Italia e che richieda, perciò, una politica di fronti unitari con i partiti socialisti. Dietro questa alternativa si nasconde, ovviamente, il problema spinoso della Russia sovietica: spingere verso l’allargamento della rivoluzione nel mondo o consolidare – con uno sforzo di modernizzazione – il socialismo nel paese dove esso si è realizzato e resistere all’imperialismo, in qualunque forma esso si presenti. Fra i comunisti tedeschi Paul Levi, il presidente del partito, rappresenta la politica di unità delle forze operaie. Egli vede una forte analogia tra i socialisti italiani e i socialdemocratici “indipendenti” tedeschi: sono partiti che conservano un forte seguito di massa, e verso i quali una lotta frontale potrebbe alimentare una politica estremista. Levi è criticato da Radek, il portavoce dell’Internazionale: il partito comunista tedesco è in crisi, questi afferma, perché la vecchia direzione «si è mostrata incapace di passare dalla difensiva del 1919 all’offensiva» e alla «radicalizzazione delle masse degli operai» nel 1920. Per l’ala sinistra il problema consiste nell’attivizzare la politica e nel mettere in movimento le masse. Anche Béla Kun, membro dell’esecutivo e dell’ufficio ristretto del Comintern, caldeggia la tesi dell’offensiva e della necessità di forzare lo sviluppo della rivoluzione: il partito comunista, da solo, sarebbe in grado di modificare il rapporto di forze e accelerare la lotta di classe con un intervento attivo. Con Levi si schierano Klara Zetkin, Adolf Hoffman, Otto Brass, ma la loro linea risulta perdente e sono costretti a dimettersi. A maggioranza la direzione assume la mozione proposta dalla sinistra del partito, sostenuta da Thalheimer, Brandler, Stöcker e Ruth Fischer.

L’Azione di marzo: le aspettative e la realtà.

All’improvviso, giunge dalla Germania centrale una notizia che fa precipitare gli eventi. Il presidente della Sassonia prussiana, il socialdemocratico Hörsing, annuncia l’intenzione di far occupare dalla polizia numerose zone industriali, tra cui il distretto minerario di Mansfeld-Eisleben, per “risanare” la situazione. Il pretesto è fornito dalle lamentele per i furti frequenti, ma il vero obiettivo è il disarmo degli operai – che hanno conservato le armi dagli anni precedenti – e, in particolare, lo smantellamento delle roccaforti comuniste. La notizia rafforza, in qualche misura, le posizioni di sinistra all’interno del partito: i responsabili locali del distretto di Mansfeld ricevono l’ordine di proclamare lo sciopero generale al primo tentativo di occupazione delle fabbriche da parte della polizia, e di prepararsi da quel momento alla resistenza armata. Il 19 marzo le forze di polizia si mettono in movimento verso la regione mineraria e il 20 la “Rote Fahne”, l’organo di stampa dei comunisti, invita gli operai tedeschi a correre in aiuto dei loro fratelli della Germania centrale ed esorta gli operai non comunisti a prendere una posizione definitiva nelle lotte che si annunciano. I risultati degli appelli sembrano tuttavia scarsi. Il 21 lo sciopero comincia a estendersi nei distretti occupati dalla polizia ma la realtà è ben lontana dallo sciopero generale e dalle previsioni ottimistiche. Il 22 marzo si formano dei gruppi armati su iniziativa di Karl Plättner: alcuni settori operai vedono in lui l’eroe dell’azione rivoluzionaria diretta. La sera del 22 costituisce un primo nucleo equipaggiato con le armi prese ai poliziotti. Nel giro di due giorni le sue milizie passano alla guerriglia nei centri abitati contro soldati e poliziotti, assaltano banche e industrie. L’atteggiamento dei comunisti nei suoi confronti è cauto a causa, soprattutto, delle differenze di metodo delle lotte: la priorità è la mobilitazione totale dei lavoratori tedeschi a fianco degli insorti. Ma il 24 emergono fra i dirigenti perplessità sulla parola d’ordine dello sciopero generale: fra chi ritiene che il dovere sia quello di battersi comunque, anche da soli se necessario, e chi invece che l’appello dello sciopero generale possa isolare il partito dalle masse. Il rischio è che, all’interno delle fabbriche, i piccoli nuclei di comunisti – cinquanta militanti, nel migliore dei casi – possano vedere di colpo rivolgersi contro di loro i mille compagni di lavoro. Passa lo sciopero generale. Lo slancio organizzativo è generoso. Ma in molte grandi fabbriche scoppiano incidenti fra gruppi di militanti e operai che si recano a lavorare. I comunisti cercano di occupare le officine per impedire l’ingresso ai “gialli”, all’enorme massa di operai non comunisti. Al loro fianco, in alcuni casi, partecipano anche gruppi di disoccupati. Il bilancio, alla fine, è modesto: 200 mila scioperanti secondo i pessimisti, mezzo milione per gli ottimisti. In alcune situazioni locali si va incontro a veri e propri fallimenti, a Berlino per esempio. La repressione non tarda a scattare. Il 28 vengono bombardate le fabbriche del distretto di Mansfeld, il giorno dopo gli operai si arrendono. Il 30, nonostante gli ordini contrari della Centrale, si ritorna al lavoro. Solo il 1° aprile arriva la direttiva ufficiale di porre fine allo sciopero. Nelle settimane successive si registra l’entità della sconfitta. In poco tempo il partito perde 200 mila iscritti. L’azione di marzo ha messo a nudo la scarsa capacità di incidere sulle grandi masse operaie e, in alcuni casi, anche sui propri militanti. Taluni comunisti hanno addirittura preso posizione contro lo sciopero. La repressione e i tribunali eccezionali si fanno sentire: i giornali sono proibiti o sospesi, i militanti arrestati. All’inizio di giugno si contano già quattrocento condannati a circa 1500 anni di reclusione. Decine di migliaia di operai vengono licenziati e messi nelle liste nere del padronato. In molte fabbriche si è infranto il legame tra il nucleo comunista, ormai colpito duramente e spezzato, e i lavoratori che esso iniziava a influenzare. Dalla III Internazionale trapelano ora preoccupazioni. Un articolo di Zinov’ev della fine di marzo avverte che «il tempo della rivoluzione proletaria internazionale sta, per tutta una serie di circostanze, alquanto rallentando» e che i rapporti di forza diventano, in ultima analisi, sempre più sfavorevoli a colpi di mano, a una tattica offensiva. Sono tutti elementi di una situazione che sta mutando e che impone alla Russia sovietica di uscire da un isolamento sempre più drammatico. La prospettiva di una rivoluzione in occidente nel breve periodo è fallita.