Genova, la figuraccia mondiale dell’Italia

Per tutto il mese d’agosto la stampa internazionale ha continuato a criticare l’operato della polizia italiana durante e dopo la riunione del G8 a Genova. L’aspetto più interessante è costituito dai ripetuti interventi critici del conservatore Wall Street Journal che, oltre a non aver mai peccato di democraticismo, è stato tra i maggiori critici del movimento no global nato a Seattle. Questo fatto dovrebbe far riflettere i giornali e le autorità politiche italiane che trattano di Genova in termini di rinnovato terrorismo arrivando a colpevolizzare anche il pacifico corteo aggredito dalla polizia.
Negli Usa il movimento no global è ormai considerato un’espressione reale della società con ampie radici in strati cruciali della popolazione come i giovani dei campus universitari da dove provengono gli apparati tecnico funzionariali delle istituzioni preposte alla privatizzazione globale. L’emergere di un nuovo strato di studenti disposti a lottare su temi globali, non finalizzati alla cessazione di una guerra come fu per il Vietnam, è destinato a delegittimare queste istituzioni proprio nel paese da cui traggono maggior supporto. Gli eventi di Genova hanno creato profonda emozione nell’ambito di tali strati aumentando in una prospettiva ravvicinata la distanza tra il mondo delle istituzioni economiche uffciali e le fonti da cui attingono cervelli. In altre parole mentre è permesso imporre a Cincinnati il coprifuoco perchè si tratta di gente down and out, è preferibile che Ruggiero – proprio in quanto è stato il primo direttore del Wto – non si faccia trovare tra i difensori di una mattanza che ha contribuito ad acuire la delegittimazione dello stesso Wto tra la gioventù universitaria americana. La guerra di bassa intensità bisogna, insomma, saperla gestire.
L’incapacità di comprendere, soprattutto dopo Genova, la natura del movimento no-global non è però unicamente dovuta alla tradizionale pigrizia intellettuale di molti giornalisti e di moltissimi politici italiani. E anche ascrivibile al fatto che l’azione poliziesca ha riportato a galla due aspetti cruciali della storia istituzionale italiana che vanno dall’impunità della polizia nel campo dell’ordine pubblico fino alla formazione di corpi separati con culture repressivo fasciste. Del primo aspetto se ne è occupato con sobrietà e precisione il Guardian del 30 luglio con un’analisi storico-politica su Genova – “Genoa Rivisited” – firmato da Philip Cooke dell’Università di Strathclyde, già autore di una monografia su Tambroni apparsa in Italia l’anno scorso. Del secondo ne ha parlato su Repubblica Giorgio Bocca.
Cooke osserva che “molti commentatori si chiedono quali siano le probabilità di rendere giustizia a coloro che sono stati feriti e, come nel caso di Giuliani, uccisi”. L’autore sottilenea che “sotto il fascismo non era possibile procedere contro la polizia. In teoria questo stato di cose avrebbe dovuto cambiare dopo la creazione della repubblica italiana all fine della guerra. Tuttavia, fino al 1960, sebbene 94 cittadini fossero stati uccisi durante scioperi o manifestazioni di protesta e 400 avessero subito ferite da arma da fuoco, nessun caso (afferente al comportamento della polizia, ndr) riuscì mai ad essere portato in tribunale”. Lo sdegno suscitato dalle uccisioni di Reggio Emilia nel 1960 indusse il tribunale di Bologna ad aprire un procedimento giudiziario nei confronti di due ufficiali di polizia poi assolti – rispettivamente con formula piena e per insufficienza di prove – malgrado “la schiacciante evidenza a loro carico”. Inoltre due ufficiali accusati di aver torturato un paio di adolescenti non vennero mai tradotti di fronte all’autorità giudiziaria perchè “il fatto non costituiva reato”. L’autore conclude notando che dopo i fatti del luglio 60 a Genova ed in Sicilia vennero condannati complessivamente 94 manifestanti, alcuni con pene superiori a quattro anni di carcere. Invece “dopo oltre 40 anni nessun ufficiale di polizia o funzionario dello stato è stato punito a norma di legge per gli eventi del 1960”.
La ricostruzione storica e le conclusioni fattuali presentate da Philip Cooke contribuiscono a cogliere le debolezze interpretative di un pur lucido articolo di Giorgio Bocca sulla Repubblica del 29 luglio intitolato “le molte anime di un regime”. Nello scritto venivano rilevati i criteri d’odio e violenza che vengono applicati nel selezionamento del personale per forze speciali come i paracadutisti. Quindi scrive “Ma che tale sia la scuola di quasi tutti i reparti speciali di polizia è una amara sorpresa, è la dimostrazione che l’autonomia degli apparati polizieschi, il loro restare autoritari in uno Stato democratico, è stata non solo tollerata ma voluta, che nella nostra democrazia ci sono poliziotti addestrati all’odio politico come dei pitbull feroci. Non chiamatelo fascismo ma quante somiglianze”. Autonomia poliziesca tollerata e voluta appunto da quando? Esisteva già, come precisato da Cooke, negli anni cinquanta e sessanta. E gli anni settanta e ottanta con le stragi di stato, l’ affare Moro, i servizi deviati, non sono forse due decenni in cui si consolida e si cristalizza proprio ciò che Bocca denuncia? Forse con Genova 2001 abbiamo visto riemergere un pezzo di quell’iceberg, rivelatosi molto più pericoloso dell’Urss, al cui impatto si è inabissata la sinistra classica (PCI) che da Piazza Fontana in poi ha agito nel modo tratteggiato da Leonardo Sciasca nella Sicilia come metafora e nel Contesto. La natura aleatoria dello stato di diritto dell’Italia repubblicana venne affrontato di petto da Antonio Tabucchi in un bellissimo articolo su Le Monde il 19 aprile scorso dal titolo “Où va l’Italie, M. Ciampi ?”. Dice lo scrittore: “La ragione di questa lettera? Essa risiede nell’analisi del nostro paese, cioè delle istituzioni e dei governi che dirigono ed hanno diretto il popolo italiano. A cinquantacinque anni di distanza si potrebbe dire che l’Italia è una repubblica findata sui massacri”. All’affermazione segue una disamina che va da Portella della Ginestra, a Moro, ad Ustica. La violazione dei diritti umani perpetrata dagli apparati dello Stato a Genova si inserisce nella continuità storica delineata da Tabucchi. Questo è il nocciolo della questione, non cosa farà Agnoletto a Roma o a Napoli.