Nessuno qui a Genova, nega l’importanza del ritiro dall’Iraq. Ma quel risultato non muta lo scenario: «L’unica riduzione del danno è la fine della guerra», dice il rossoverde Antonio Bruno, leggendo un appello che rilancia la piattaforma dei forum sociali di Bamako, Caracas e Atene, alla fine dell’assemblea titolata Ripartire da Genova per il ritiro dall’Afghanistan. Tradotta in italiano, quella piattaforma chiama a una grande assemblea unitaria, a settembre, per scovare un percorso che porti a staccare, entro la fine dell’anno, il biglietto di ritorno per i “nostri” ragazzi a Kabul. Prossima fermata, quella dell’assemblea nazionale, potrebbe essere Firenze, la città da cui partì l’appello alla mobilitazione del 15 febbraio 2003 in cui si manifestò quella che il New York Times volle definire la seconda potenza mondiale. Poi, non appena sia stato recuperato lo slogan originario del movimento – contro la guerra militare, sociale ed economica – ci sarà da tornare nei territori magari in forma di carovana come suggerisce Alfio Nicotra, responsabile Pace di Rifondazione.
L’autunno potrebbe essere definitivamente iniziato ieri a Genova dopo due settimane scandite da altre importanti mobilitazioni, quella contro la precarietà dell’8 luglio, al Brancaccio di Roma, e l’altra contro la guerra, di sette giorni fa, autoconvocata ancora a Roma intorno ai parlamentari “ribelli”. Momenti distinti che comunque si sono parlati. Non fosse perché il drappello di senatori e deputati che formano il fronte del no ha almeno il merito di aver imposto all’ordine del giorno il tema della madre di tutte le missioni. Ieri mattina, il dibattito su pace e guerra s’è ulteriormente “smilitarizzato”, questione piuttosto a cuore ai promotori, e ha messo a fuoco il tema dell’autonomia dei movimenti visto che, per usare le parole introduttive di Marco Bersani, portavoce di Attac, s’è creduto, in questi giorni, di parlare di guerra. «E invece abbiamo solo parlato di governo. Mica esiste un governo amico ma non è indifferente se introduce o meno elementi di discontinuità».
L’autonomia, tuttavia, è un tema che è stato declinato con diverse tonalità. A chi, come Paolo Cacciari (il deputato Prc che ha trovato «insopportabile votare il ddl sulle missioni»), spiegava che non vuol dire separatezza e ipotizzava modalità di consultazione e interlocuzione trasparenti e permanenti, si contrapponeva quasi il pattiano Nicolosi per il quale autonomia non è indifferenza alle sorti del governo. Contando quanti, in sala, fossero “istituzionali”, il milanese Muhlbauer, consigliere lombardo del Prc, ha voluto richiamare il dato che la sua, e l’elezione di altri esponenti di movimento, è frutto di una storia che ha visto l’irrompere di nuovi soggetti sulla scena politica fino ad arrivare nelle istituzioni. Il trucco sta nel capire che sono i meccanismi di delega a mangiarsi lo spazio pubblico dei movimenti. Lo ha spiegato Anna Pizzo giornalista di Carta e consigliera alla regione Lazio, durante una discussione che ha alternato momenti di analisi a formulazione di proposte, evocando più volte lo “spirito di Genova” mentre una “vecchia, nuova guerra” si riaffaccia prepotente sulla scena.
Avverte Raffaele K. Salinari, presidente di Terres des Hommes, che dietro l’angolo, in Medio Oriente, c’è la logica che si affermò ai tempi del Kosovo. Anche allora l’escamotage dei corridoi umanitari da aprire portò alla sospensione del diritto internazionale. Raffaella Bolini, dell’Arci, denuncia un ritardo di analisi – sul rapporto con la politica e sulle alternative alle missioni militari – che fa sì che l’unica cosa da dire insieme sia “yankee go home”. Un po’ poco per la responsabile internazionale dell’Arci più attenta di altri a considerare la complessità del fronte pacifista e a scommettere sui risultati che potrebbero arrivare dal governo. Ma anche lei è cosciente che il 61% della popolazione italiana, tanti quanti si sono dichiarati per la fine delle missioni militari in un recentissimo sondaggio di Mannheimer, non ha adeguata rappresentanza politica nel nuovo parlamento. «Il governo resterà in piedi solo se non continua la guerra», le ribatte Norma Bertulacelli, pacifista storica genovese. Lo stesso Bersani, nell’introduzione, aveva detto che la discontinuità reclamata serve a consolidare la vittoria del 9 aprile e che assemblee come questa «fanno bene all’Unione». Norma, però, va oltre e chiede, inascoltata, uno sciopero generale anziché una sfilata. Le somiglia un po’ Luca Iori, giovane comunista del Buridda genovese, quando chiede che tornino a essere messi in gioco i corpi, per assediare le basi e le industrie belliche, come fu per il train-stopping, Anche tra i promotori, insomma, le differenze non sono dettagli ma hanno il merito di aver attirato a Genova anche chi non ha aderito all’appello dei promotori. Il cobas Pino Giampietro, lontano dall’assemblea, ricorda che la battaglia parlamentare non è ancora finita e che mentre il senato discuterà, loro saranno lì sotto. Restano assenti pezzi non secondari di quello che fu “Fermiamo la guerra”, il tavolo che costruì il 15 febbraio. Non si vedono, a “destra”, cislini e scout, e, a sinistra, settori antimperialisti e disobbedienti. Ma chi alla fine arriva al teatro della Foce si sentirà «a casa». Come il milanese Piero Maestri, della rivista Pace & Guerre e consigliere provinciale Prc. Quello che andrebbe indagato, segnala, dovrebbe essere il “sistema guerra” e le trasformazioni che ha imposto alla politica. Un esempio del degrado, indotto dalla logica di guerra, viene riferito da Luiz Del Rojo, deputato Prc. Ha a che fare con Genova e con le dimissioni di Malabarba per far posto ad Haidi Giuliani. Quando l’ex operaio Fiat lo ha annunciato ai suoi colleghi, dai banchi delle destre si inneggiava ai carabinieri, quelli che uccisero Carlo nel loro illegittimo attacco a un corteo autorizzato.
Da Alfonso Navarra, “disarmista” e compagno di strada di Zanotelli, allo scienziato Angelo Baracca, da Legambiente fino a Sabina Siniscalchi, economista del giro di Banca Etica ed eletta deputata nel Prc (ha votato sì ma non crede che sia finita qui), sono molti a tentare di ampliare l’ambito della mobilitazione ai temi del riarmo nucleare, del commercio delle armi, anche di quelle leggere, alle questioni della riconversione delle industrie belliche, delle politiche energetiche e dello smantellamento delle basi Nato che andrebbe rinegoziata e – perché no? – superata. Riprendendo un input prezioso del leader Fiom, Rinaldini (intervistato in questa stessa pagina), Claudio Grassi, senatore “ribelle” del Prc e coordinatore dell’area Essere comunisti, avverte che non è certo il «momento degli steccati». Si dovrà ripartire dal «silenzio del mondo sulla questione palestinese» e rivendica le «luci rosse» accese nelle istituzioni per scongiurare il voto bipartisan su un’intesa «insufficiente e che non andava votata senza far pesare certe ragioni». Le ragioni del 61%. «Cinque anni dopo il movimento è in crisi, ci sono le organizzazioni ma manca una casa comune», segnala Nando Simeone, vicepresidente, per il Prc, del consiglio provinciale di Roma. «Nelle fabbriche massacrate – ammette Franco Turigliatto, altro senatore “dissenziente” – registro la preoccupazione dei lavoratori per un’eventuale crisi di governo ma credo che contro la guerra si possa ottenere la stessa unità che è stata registrata sulla precarietà. La pace è un elemento costituente».
Suggerendo che sia Firenze ad ospitare la prossima tappa, Vittorio Agnoletto lancia una suggestione forte per l’autunno: «E se fra sei mesi si tornasse a discutere di Afghanistan con un centinaio di parlamentari che presentano un documento sintonizzato sul movimento?». Sue le conclusioni dell’evento che chiude le giornate genovesi dedicate al passato e al futuro. Quando sente D’Alema parlare di eccesso di difesa a proposito degli abusi israeliani su Palestina e Libano, l’ex portavoce del Gsf non può fare a meno di ricordare che furono le stesse parole utilizzate per giustificare le scorribande poliziesche del G8. La guerra ha anche un fronte interno come i nomi di Scajola e Bianco (ministri di polizia di Genova e Napoli), ancora in posti chiave, stanno lì a ricordare. Minacciosamente.