Migliaia di libanesi, almeno 300.000 persone, hanno dato ieri l’ultimo saluto a Pierre Gemayel, ministro dell’industria ed esponente del partito falangista, ucciso martedì scorso da un commando di uomini armati nel quartiere cristiano di Sin el Fil, dando vita ad una grande manifestazione di sostegno al governo Siniora e allo schieramento filo-Usa e filo-Parigi che lo sostiene. La cerimonia si è svolta nella cattedrale cristiano-maronita di San Giorgio alla presenza del premier sunnita Fouad Siniora, del gotha della destra falangista cristiano maronita – dal padre dello scomparso, l’ex presidente Amin Gemayel, al leader delle Forze libanesi Samir Geagea – e dei leader del «fronte del 14 marzo», da Saad Hariri, figlio dell’ex premier ucciso nel febbraio del 2005, all’esponente druso Walid Jumblatt. Presenti anche numerosi dignitari stranieri tra i quali il segretario della lega Araba Amr Moussa e il rappresentante della vecchia-nuova potenza coloniale del Libano, da sempre protettrice dei cristiano-maroniti, il ministro degli esteri di Parigi Philipe Douste-Blazy. Il feretro, coperto dalla bandiera delle Falangi, bianca con al centro un grande cedro, è giunto in mattinata nella chiesa di San Giorgio proveniente dal paese natale dei Gemayel, Bikfaya, sulle montagne ad est di Beirut, ed è stato accolto dal patriarca cristiano-maronita, Boutros Sfeir che ha officiato il rito. Grande assente alle esequie il generale cristiano-maronita Michel Aoun, titolare del principale gruppo parlamentare cristiano nel parlamento, da tempo alleatosi con gli Hezbollah e il resto dell’opposizione, per respingere il nuovo «protettorato americano-francese» così come aveva già sfidato il precedente dominio siriano lanciando contro Damasco un’eroica e sfortunata «guerra di liberazione» nel 1989-90. Assente anche il presidente Emile Lahoud, anche lui cristiano-maronita, del quale ieri il «Fronte del 14 marzo» ha chiesto di nuovo le dimissioni accusandolo di essere uno stretto alleato di Damasco, e tutti i leader sciiti e sunniti dell’opposizione. Unica eccezione il presidente del parlamento Nabih Berri che, forte del suo ruolo istituzionale, ha coraggiosamente partecipato alle esequie sfidando la piazza. Il cardinale Boutros Sfeir, nella sua omelia, ha invitato la folla alla calma e i libanesi all’unità ma al di fuori della cattedrale i toni sono stati assai diversi. I militanti delle Falangi e delle Forze libanesi hanno dato alle fiamme ritratti del generale Aoun, del presidente siriano Bashar Assad e del leader Hezbollah, Hassan Nasrallah mentre gli speaker ufficiali, come l’ex presidente Amin Gemayel – «marciamo sul palazzo presidenziale »- Walid Jumblatt, Saad Hariri e il capo delle milizie falangiste, Samir Geagea «il dottore», uno dei principali esecutori della strage di Sabra e Chatila – «vogliono lo scontro e lo avranno»hanno accusato senza mezzi termini del delitto le autorità di Damasco e chiesto le dimissioni del presidente Emile Lahoud proponendo un sit-in permanente nella piazza dei martiri e una marcia sul palazzo presidenziale. Iniziativa quest’ultima che, se attuata, potrebbe far precipitare il paese nel baratro della guerra civile. L’esercito si è dichiarato «neutrale» e si è impegnato a difendere i luoghi simbolo istituzionale delle due parti: il «serraglio», il grande edificio ottomano che sovrasta il centro-città dove si sono asserragliati da ieri i ministri con le loro famiglie, timorosi per la loro vita, il parlamento presieduto dal leader sciita moderato Nabih Berri e il palazzo presidenziale sulla collina di Baabda, che sovrasta l’aeroporto, difesa ora da migliaia di soldati appoggiati da mezzi corazzati. L’esercito libanese inoltre ha steso un lungo cordone di sicurezza che da ieri divide di nuovo i quartieri cristiani e quelli sunniti dalle zone sciite di Beirut sud. Particolarmente forte la presenza dei militari lungo la via di Damas tra il quartiere di Ain Rumaneh, con una forte presenza falangista, e quello di Cheyah controllato da Amal e dagli Hezbollah. Proprio là dove iniziò nel 1975 la guerra civile. Questa volta però le divisioni sono soprattutto politiche e non tanto confessionali. A piazza Sassine una banda delle forze libanesi di Geagea ha attaccato una sede del movimento patriottico, anch’esso maronita, del generale Aoun mentre altri gravi incidenti sono scoppiati l’altra sera sotto la casa dell’ex premier Salim el Hoss, ora con l’opposizione, e nel quartiere di Basta. Nel mirino dei militanti del «14 marzo» anche molti immigrati siriani e, più in generale, gli «aghrab»- accusati ufficialmente dell’omicidio di Pierre Gemayel. Termine razzista questo usato durante la guerra civile dai falangisti per indicare i geneticamente «inferiori» arabi non libanesi, in particolare i palestinesi e i siriani. Il fronte dell’opposizione, ed in particolare il partito sciita Hezbollah, da parte sua, ha annunciato di aver sospeso, per evitare incidenti, la mobilitazione contro il governo Siniora, definito «incostituzionale» e «strumento degli Usa» ed ha accusato la maggioranza di strumentalizzare l’uccisione di Gemayel: «Per sopravvivere avevano bisogno di questo sangue».