Quanto i palestinesi siano follemente innamorati del calcio riuscì a raccontarlo bene, già nel 1990, un giovanissimo cineasta italiano, Marco Contini, in un documentario con spunti davvero interessanti sulla prima Intifada. Era da poco finito il mondiale italiano e il nome di Schillaci era sulla bocca di tutti nei Territori occupati, da Gerusalemme Est a Gaza, come lo era stato quello di Paolo Rossi nel 1982. «Ti piace giocare a calcio, hai seguito il mondiale?», chiedeva Contini, «Sì e il mio campione preferito è Schillaci» rispondevano in coro adulti e ragazzi.
Il campione siciliano, raggiunto in Italia dal cineasta, invece dimostrò di sapere poco o nulla dei palestinesi ed è improbabile che nel frattempo abbia colmato le sue lacune. Negli ultimi anni le decine di canali sportivi satellitari captati nelle città così come nei villaggi e campi profughi hanno contribuito ad accendere ulteriormente la passione dei palestinesi per questo sport. Le squadre di calcio sono spuntate come funghi, soprattutto dopo il riconoscimento da parte della Fifa (nel 1998) della federazione palestinese e l’organizzazione dei campionati in Cisgiordania e Gaza. Ma se seguire le prodezze di Totti, Kakà e Ronaldihno non è poi così difficile, anche sulle pay-tv – nei Territori occupati sono abilissimi a falsificare le card dei canali a pagamento -, fare calcio può essere un’impresa quasi impossibile se un palestinese vuole praticare il calcio a livello agonistico. Negli ultimi anni, per «ragioni di sicurezza», Israele ha ostacolato in svariati modi lo svolgimento dei campionati di calcio nei Territori occupati. Le squadre di Gaza non possono recarsi in Cisgiordania e viceversa e, di conseguenza, non può essere assegnato uno «scudetto» unico. I calciatori sono giovanissimi, spesso adolescenti, amano lo sport, quindi la vita, e non pensano di trasformarsi in kamikaze mentre attraversano il territorio israeliano.
Inoltre i controlli di sicurezza, sempre più lunghi e minuziosi, al valico di Erez, tra Gaza e Israele, dovrebbero annullare ogni preoccupazione. Niente da fare, anche gli sportivi riescono ad ottenere dall’autorità militari raramente i permessi per recarsi da una parte all’altra dei Territori occupati. Ne sa qualcosa la nazionale di calcio palestinese. Nonostante le grandi difficoltà organizzative – le partite casalinghe è costretta a disputarle in Qatar, mentre gli allenamenti li svolge in territorio egiziano – la selezione ha scalato la classifica Fifa, riuscendo a passare dal 191.mo posto del 1999 al 115.mo del 2006. «Non sono in possesso della carta d’identità (l’Anp può rilasciare questo documento solo dopo aver ricevuto il via libera delle autorità d’occupazione, ndr) così non posso seguire la nazionale nelle sue trasferte. In tutta la mia vita non sono mai entrato in un vero stadio in erba all’estero», racconta il nazionale Ahmed Abdel Rahman, residente a Gaza.
Più fortunati sono i suoi compagni che giocano nei campionati all’estero, come il cileno Bruno Pesce Rojas, centrale difensivo dell’Andria, con origini italiane da parte di padre e palestinesi da parte di madre. «Qualche anno un tecnico sudamericano censì in Cile alcuni calciatori che avevano origini e passaporto palestinese, così ora difendo i colori della Palestina. Per me è un onore rispondere a questa convocazione», dice con orgoglio. Elayan al-Jad invece è un giocatore dell’Università al-Aqsa di Gaza e il calcio internazionale può solo guardarlo in tv. «È difficile giocare in Palestina – dice – non possiamo andare in Cisgiordania e continuiamo a sfidarci tra di noi, qui a Gaza. Mi piacerebbe poter disputare un campionato vero e magari fare di questo sport il mio lavoro».
Le restrizioni e i divieti israeliani ostacolano non solo il calcio ma molti altri sport praticati dai palestinesi. Nei Territori occupati, ad esempio, diventa sempre più popolare il basket. Nelle viuzze del quartiere cristiano della città di Gerusalemme una scritta domina su molti muri e portoni – «Issa is the name, basket is the game» – in onore di un ragazzo del posto che qualche tempo fa si è comportato bene nel campionato di basket universitario statunitense. Alle partite, all’aperto e nelle palestre, assistono centinaia di giovani entusiasti e da alcune settimane una grande attesa regna intorno alla finale del campionato nazionale tra il La Salle di Gerusalemme e il team di Gaza city. Sino ad oggi però l’esercito israeliano non ha mostrato alcuna intenzione di concedere il permesso di transito ai cestisti di Gaza e nessuna speranza nutrono quelli di Gerusalemme. Così la finale, se si farà, verrà disputata in Giordania. Tra non meno di due mesi però, tanto ci vorrà infatti per ottenere i lasciapassare necessari per andare da Rafah e dal ponte di Allenby ad Amman. Una mano a tanti giovani palestinesi a compiere esperienze sportive, anche all’estero, la danno varie associazioni europee, italiane in particolare. All’inizio di aprile, ad esempio, la carovana di «Sport sotto assedio» – 44 calciatori e calciatrici organizzati dalle Palestre Popolari di Roma, dalle associazioni Yalla e Salah dirette da Luca Colombo e Pino Passanelli, dall’Uisp, centri sociali e varie tifoserie organizzate – ha attraversato i territori palestinesi. A Gaza sono stati accolti con entusiasmo e con l’aiuto organizzativo garantito dall’ong Cric di Reggio Calabria, hanno potuto disputare diverse partite, anche con selezioni femminili locali. Poi sono andati a Gerico e altre località della Cisgiordania. Più di tutto «Sport sotto assedio» ha offerto la possibilità a giovani palestinesi di praticare il calcio in Italia. Proprio ieri un gruppo di ragazzi giunti da Gaza, Cisgiordania e campi profughi del Libano ha disputato un incontro con una formazione giovanile dell’Inter. Ma è solo una goccia nel mare del desiderio di chi ha voglia di correre dietro un pallone, prima di tutto a casa sua, senza dover chiedere anche per questo il permesso a Israele.