Per l’esercito israeliano è solo un «cinico sfruttamento come scudi umani di persone non coinvolte», ma tra i palestinesi cresce l’entusiasmo per la «difesa popolare» che comincia a scattare ogni volta che le forze armate dello Stato ebraico annunciano l’intenzione di distruggere l’abitazione di un militante dell’Intifada o di colpire un edificio in un’area densamente popolata di Gaza. Ieri c’è stato un nuovo caso, come quello di sabato notte, a Jabaliya. Alla notizia di un attacco imminente ad un palazzo, annunciato da Israele con un avvertimento agli abitanti del posto a lasciare subito la zona, decine di volontari chiamati a raccolta dagli altoparlanti delle moschee si sono disposti intorno alla casa presa di mira. Alcuni di loro hanno preso posto sul tetto sventolando bandiere. Hamas non ha mancato di cantare vittoria, descrivendo la tattica della «difesa popolare» come un nuovo successo contro Israele – lo stesso premier Haniyeh si è recato a far visita agli «scudi umani» che sabato proteggevano le case di Mohammed Baroud, dei Comitati di resistenza popolare, e di Mohammed Nawajeh, leader di Hamas nel nord di Gaza – ma l’accaduto rappresenta qualcosa di più significativo dei calcoli propagandistici di Hamas.
Nella mobilitazione di qualche settimana fa di decine donne intorno alla moschea di Beit Hanoun – due vennero uccise dal fuoco dei soldati israeliani – e in quelle avvenute in questi ultimi giorni si scorgono segnali di una rinnovata partecipazione della gente di Gaza, di una resistenza passiva, non armata, meno militante ma non per questo meno sentita, che potrebbe dare alla causa palestinese risultati più significativi, specie in termini di attenzione internazionale, rispetto all’inutile lancio di razzi artigianali che offre pretesti a Israele per attaccare Gaza e colpisce civili sull’altro versante. «Spero che l’accaduto rappresenti un cambiamento reale – dice al manifesto Jamal Zakut, noto esponente della società civile di Gaza – da sempre sono convinto che i palestinesi riusciranno a conquistare la loro libertà e indipendenza solo con una massiccia partecipazione popolare, con la resistenza passiva, con manifestazioni quotidiane di decine di migliaia di persone forti e determinate che nelle città, ai valichi, ai punti di transito (con Israele), armate di bandiere e striscioni, reclamino a gran voce i loro diritti. Non saranno un po’ di mitragliatrici o qualche razzo artigianale a darci la libertà, ma il consenso internazionale alla nostra causa. È questo che teme Israele». Ieri tuttavia altri razzi Qassam sono stati lanciati da Gaza verso Israele dove hanno fatto solo danni leggeri. Intanto le Nazioni Unite hanno rinnovato la loro denuncia per il ferimento di due scolari palestinesi (uno ha 7 anni), colpiti due giorni fa da proiettili israeliani in una scuola dell’Unrwa, l’agenzia che assiste i profughi, nel nord della Striscia di Gaza. «I bambini non sono al sicuro neanche nelle classi delle Nazioni Unite», ha commentato John Ging, responsabile a Gaza dell’Unrwa. L’esercito israeliano sostiene di non aver svolto operazioni nell’area della scuola colpita.
Come è accaduto tante volte nei mesi passati, nel momento in cui viene dato per sicuro un accordo tra Hamas e Al-Fatah (il partito di Abu Mazen) per la formazione di un governo di unità nazionale, immancabilmente giunge dopo qualche giorno la notizia di una paralisi delle trattative. Nabil Amr, un consigliere di Abu Mazen, ha annunciato ieri che «le discussioni sono state sospese. Nessuno è soddisfatto dei risultati ai quali siamo giunti fino a questo momento». Le divergenze verterebbero non solo sul programma del futuro gabinetto ma anche sull’attribuzione di ministeri chiave, Finanze ed Interni, al quale Hamas – vincitore delle elezioni legislative dello scorso gennaio – non intende rinunciare. Il movimento islamico esige inoltre l’assicurazione che dopo la formazione del nuovo esecutivo di unità nazionale venga revocato il boicottaggio politico e finanziario imposto da Usa, Ue e Israele all’Autorità nazionale palestinese. Contrasti si registrano anche nel governo israeliano. Il quotidiano Ha’aretz ha riferito che il premier Olmert ha più di una volta respinto le richieste del ministro della difesa Peretz d’incontrare Abu Mazen dicendogli: «nessuno vedrà Abu Mazen prima di me». La disputa si è accesa quando Amir Peretz ha informato il premier Olmert di aver avuto una conversazione telefonica con il presidente palestinese.