Gaza: la mia casa, la mia prigione

Mi ha svegliato il continuo balbettio del mio figlio di due anni, Yousuf: «Mamma, penso che oggi il valico sarà aperto!». La previsione di Yousuf si è rivelata esatta. Dopo una attesa di oltre due settimane, Israele ha finalmente aperto il confine per poche ore. Tra il caos di una folla di migliaia di viaggiatori in difficoltà, mio figlio e io siamo riusciti a varcare il valico di Rafah che dall’Egitto ci consente di raggiungere la nostra casa nella Striscia di Gaza. Tuttavia le difficoltà sono proseguite per migliaia di palestinesi che, sia sul versante egiziano che su quello di Gaza, non sono riusciti ad attraversare il confine nelle poche ore in cui è rimasto aperto. Il valico di Rafah, punto di accesso al mondo per 1.400.000 abitanti di Gaza, è stato chiuso da Israele alla fine di giugno dopo la cattura da parte dei palestinesi di un soldato israeliano. Da allora è stato aperto solamente pochi giorni.
Quando il Segretario di Stato Condoleezza Rice ha visitato la regione nel mese di ottobre la sua visita ha coinciso con il primo anniversario dell’Accordo di Gaza sul Movimento e l’Accesso concluso con la mediazione della stessa Rice. L’accordo puntava a facilitare il movimento dei palestinesi e delle merci palestinesi e prevedeva che trascorso un anno il controllo del valico di Rafah sarebbe passato ai palestinesi.
All’epoca Condoleezza Rice aveva promesso con un certo orgoglio che l’accordo «avrebbe garantito ai palestinesi la libertà di spostarsi, di commerciare e di condurre una esistenza normale».
Un anno è passato e tutti i valichi, la nostra aria, la nostra acqua e le nostre vite restano sotto il controllo di Israele.
Israele ha cominciato a violare immediatamente i suoi impegni, molto prima della vittoria elettorale di Hamas, rifiutando di consentire il passaggio agli autobus diretti da Gaza alla Cisgiordania o di accelerare il flusso di merci vitali in entrata e in uscita da Gaza.
Israele aveva anche convenuto che non avrebbe chiuso Rafah o altri valichi quale misura di rappresaglia nei confronti di incidenti in materia di sicurezza non riguardanti i valichi stessi. Ad esempio, secondo l’accordo, il lancio di razzi palestinesi contro Israele non costituisce motivo valido per chiudere il valico di Rafah.
Perché quindi chiudere Rafah? Ribattendo alle accuse israeliane, alcuni diplomatici europei di primo piano hanno dichiarato sia al Jerusalem Post che al Ynet News che non c’erano state significative violazioni palestinesi dell’accordo e che i valichi non vengono impiegati per il contrabbando di armi. In attuazione di quanto disposto dall’accordo, l’Unione Europea dispone di stazioni di controllo in corrispondenza del valico.
Un documento militare israeliano pubblicato ad agosto dal quotidiano israeliano Haaretz avanzava l’ipotesi che la chiusura fosse di fatto calcolata. Il suo scopo era di «esercitare pressione» sugli abitanti di Gaza per indurre i palestinesi a restituire il soldato israeliano rapito. Questa iniziativa, dice «B’Tselem», una organizzazione israeliana per i diritti umani, rappresenta una punizione collettiva per la popolazione civile di Gaza.
Ma invece di ritenere Israele responsabile, Condoleezza Rice ha lodato il primo ministro Ehud Olmert per aver compiuto passi capaci di «promuovere i processi di pace nella regione». Aspettiamo per giorni e giorni nella cittadina egiziana di Arish fin quando all’improvviso corre voce che stanno per aprire il valico. Accorriamo insieme a migliaia di altri palestinesi in difficoltà. Facciamo la fila per sette ore per due giorni consecutivi, languendo in una sorta di limbo, e poi veniamo a sapere che gli israeliani hanno chiuso di nuovo il valico dopo appena un’ora. Ce ne stiamo sotto il sole ammucchiati come bestiame, stretti tra le barriere di acciaio da una parte e la polizia anti-sommossa egiziana, dall’altra.
«Aspettiamo da 15 giorni. Dio solo sa quando apriranno il valico; oggi, domani, dopodomani», mi dice Abu Yousuf Barghut, 58 anni. Sua moglie singhiozza silenziosamente accanto a lui. «Siamo andati per farlo curare. I miei quattro figli mi aspettano a Gaza. Vogliamo solo tornare a casa, nulla più».
Lì accanto alcune persone cercano di confortare una giovane affetta da distrofia muscolare che urla in maniera incontrollabile sulla sua sedia a rotelle. Garantire ai palestinesi i diritti fondamentali – tra cui il diritto alla libera circolazione – è essenziale per promuovere la pace e per far nascere uno Stato palestinese. Eppure il mondo è rimasto relativamente in silenzio – quasi complice – mentre Gaza veniva trasformata in una prigione.
Né Israele né il governo degli Stati Uniti né il resto del mondo possono imprigionare 1.400.000 palestinesi e aspettare che in qualche modo il loro “problema” scompaia. Certo è che noi non andiamo da nessuna parte.