Gaza, la grande depressione dell’economia palestinese

In uno dei molti rapporti sulla vita economica della Striscia di Gaza che ho avuto modo di leggere recentemente, sono stata colpita dalla descrizione di un vecchio sulla spiaggia che gettava le sue arance in mare. Il racconto mi ha fatto sobbalzare perché era la medesima scena a cui avevo assistito di persona 21 anni fa durante la mia prima visita a quel territorio. Era l’estate del 1985 ed ero guidata in un giro a Gaza da un’amica di nome Alya. Mentre percorrevamo in macchina la strada litoranea vidi un vecchio palestinese sulla riva con alcune cassette di arance vicine. Ero perplessa e chiesi a Alya di fermare l’auto. Il palestinese prendeva le arance una per una e le gettava nell’acqua. Il suo non era un gesto giocoso, ma di dolore e tristezza. I movimenti erano lenti ed elaborati, come se il peso di ciascun frutto fosse più di quanto lui potesse sopportare. Chiesi alla mia amica cosa stava facendo, e lei mi spiegò che il vecchio, non potendo esportare le arance in Israele, anziché guardarle marcire nel frutteto aveva scelto di buttarle in mare.
Oltre vent’anni più tardi, dopo accordi di pace, protocolli economici, road map e separazioni, gli abitanti di Gaza stanno ancora buttando in mare le proprie arance. Un anno dopo il “ritiro” di Israele del 2005 dalla Striscia, la città vive un grave declino economico, verso livelli di povertà senza precedenti, disoccupazione, caduta degli scambi, deterioramento dei servizi sociali specialmente salute e istruzione. L’ottimismo che circondava il ritiro ha trovato un riflesso anche nel piano dell’Autorità di rinnovo dell’economia noto come Strategia di Sviluppo Economico della Striscia di Gaza, pubblicato subito dopo la conclusione del ritiro. Questo piano, una serie di obiettivi più che un programma di sviluppo, aveva fra i primi punti “raggiungimento di stabilità, controllo sul suolo, adozione di politiche efficaci a consentire uno sviluppo equilibrato”.

L’Autorità non è stata in grado di realizzare i propri obiettivi, date le urgenze imposte, ma è importante sottolineare che anche in assenza delle restrizioni, una pianificazione razionale come quella descritta nel documento dell’Autorità è semplicemente inutile, in un contesto in sé tanto irrazionale, caratterizzato da imprevedibilità, vulnerabilità e dipendenza.

L’impoverimento dell’economia di Gaza non è accidentale, è il risultato delle politiche restrittive di Israele e più di recente dall’embargo internazionale sugli aiuti imposto ai palestinesi dopo l’elezione del governo di Hamas all’inizio di quest’anno. All’epoca in cui scoppiò la seconda intifada, la politica di isolamento di Israele era in vigore da sette anni, e aveva condotto a livelli di disoccupazione senza precedenti. Decenni di esproprio e deindustrializzazione avevano da tempo rubato alla Palestina il suo potenziale di sviluppo, assicurando che non ne potesse emergere nessuna valida struttura economica.

Secondo la Banca Mondiale, i palestinesi stanno attualmente subendo la peggiore depressione economica della storia moderna. L’oltraggiosa imposizione delle sanzioni internazionali ha avuto un impatto devastante su un’economia già gravemente compromessa, data la sua estrema dipendenza da risorse finanziarie esterne. L’Autorità Palestinese dipende fortemente da due fonti di entrata. La prima sono gli aiuti annuali dei donatori occidentali con circa un miliardo di dollari gran parte dei quali ora sospesi. La seconda è un trasferimento mensile da Israele di 55 milioni di dollari in entrate doganali e fiscali raccolte per la Anp, oggi completamente sospesa. Di fatto, Israele ora sta trattenendo quasi mezzo milione di dollari di entrate palestinesi.

L’impatto complessivo delle restrizioni si è tradotto in livelli senza precedenti di disoccupazione, che attualmente a Gaza si avvicinano al 40% (contro meno del 12% nel 1999). In realtà, se non è stato consentito l’ingresso dei lavoratori palestinesi da Gaza a Israele dal 12 marzo 2006, tutti i punti di entrata e uscita principali per il mercato sono in pratica chiusi dal 25 giugno, quando è iniziata l’attuale campagna militare israeliana. Nello stesso modo sono stati influenzati i livelli degli scambi commerciali.

A esacerbare il declino l’attacco israeliano dello scorso giugno alla centrale energetica. L’impianto, completamente distrutto, forniva il 45% dell’elettricità alla Striscia. Le cadute di tensione sono state estremamente gravi per l’assistenza ospedaliera, la distribuzione di acqua e cibi, la gestione degli scarichi e altri problemi. Inoltre, dall’invasione militare israeliana della Striscia di Gaza nota come “Operazione Pioggia d’Estate” oltre alle centinaia di morti e feriti i soldati israeliani hanno colpito edifici governativi e scolastici, decine di abitazioni private, sei ponti e una quantità di strade, centinaia di ettari di terreni agricoli, devastandoli. Secondo le Nazioni Unite, nel 2007 in assenza di significativi miglioramenti nell’economia palestinese, nell’insieme essa sarà del 35% più ridotta di quanto non fosse nel 2005, precipitando ai livelli del 1991, con oltre la metà della forza lavoro disoccupata.

Le previsioni sono quelle recentemente rese pubbliche dall’Onu sull’impatto della riduzione degli aiuti. Utilizzando il 2005 come base, le proiezioni assumono una riduzione del 30-50% negli aiuti (e con essa della spesa pubblica), un 50-100% di incremento nella riduzione degli scambi, un 10-20% di incremento nelle restrizioni sui flussi per lavoro verso Israele. Secondo lo scenario peggiore, del resto non improbabile, la perdita in termini di prodotto interno lordo fra il 2006 e il 2008 potrebbe raggiungere i 5,4 miliardi di dollari, ovvero superare l’intero prodotto lordo palestinese del 2005. Potrebbero andare perduti l’84% dei posti di lavoro disponibili nel 2005. Anche secondo lo scenario migliore, scrive Raja Khalidi, economista della United Nations Conference on Trade and Development, «l’economia imploderebbe verso livelli mai visti da generazioni».

Il problema non è soltanto di occupazione, ma anche demografico. Oggi, ci sono oltre 1,4 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia: per il 2010 la cifra si avvicinerà ai due milioni. Gaza ha il tasso di natalità più elevato della regione – 5,5 6,0 figli famiglia – e la popolazione cresce del 3-5% l’anno. L’80% è sotto i 50 anni, e il 50% sotto i 15 anni. La metà del territorio in cui si concentra la popolazione ha una delle densità più elevate del mondo. Nel solo campo profughi di Jabalya, vivono 74mila persone per chilometro quadrato, contro le 25mila di Manhattan. Secondo gli ultimi dati elaborati dal Progetto 2010 dell’Università di Harvard, con una crescita annuale fra il 3,45% e il 3,5%, la popolazione di Gaza di 1.330.000 persone raggiungerà le 1.590.000 entro il 2010, e le 2.660.000 al 2028, raddoppiando la dimensione attuale. Inoltre al 2010 la popolazione adulta, in proporzione a quella infantile, crescerà del 24%, ponendo ulteriori pressioni sui mercati del lavoro e della casa. Se cresce il numero di persone che non riescono ad accedere al lavoro e alla casa, entrambi fattori chiave di matrimonio e struttura familiare, il conseguente gap sempre più ampio fra domanda e offerta porterà a un aumento della violenza, e con esso ad una più elevata militarizzazione della società.

Il complesso di popolazione in crescita e spostamento nella composizione per età pone enormi pressioni sui servizi pubblici, specialmente istruzione e sanità. Nel caso dell’istruzione, ad esempio, la sola crescita di popolazione senza alcun miglioramento nella qualità dei servizi richiederà un’aggiunta di 1.517 e 984 aule nei prossimi quattro anni. Parallelamente, se il sistema educativo di Gaza vuole raggiungere gli attuali livelli della West Bank, necessita di almeno 7.500 insegnanti in più, e 4.700 aule aggiunte. Per quanto riguarda la sanità, se la Striscia di Gaza vuole semplicemente mantenere gli attuali livelli di accesso ai servizi fino al 2010, avrà bisogno di altri 425 medici, 520 infermieri aggiuntivi, 465 nuovi posti letto negli ospedali.

Il danno non può essere rimediato semplicemente “restituendo” territorio a Gaza, rimuovendo i 9mila coloni israeliani, consentendo ai palestinesi libertà di movimento e il diritto di costruire fabbriche, in una Gaza più grande, ma isolata e circondata. La densità non è soltanto un problema di quantità di persone, ma di accesso alle risorse, specialmente al mercato del lavoro. Senza accessi esterni e il diritto di emigrare, cose che il Piano di Ritiro da Gaza e quello di riallineamento di Olmert efficacemente impediscono, la Striscia continuerà ad essere una prigione senza possibilità di sviluppare qualunque forma di attività economica. In definitiva, la prolungata assenza di un accordo politico, fa sì che gli aiuti internazionali possano soltanto contribuire alla sopravvivenza dei palestinesi, e nulla di più.

(Traduzione di Fabrizio Bottini)