I rinforzi militari israeliani continuano ad arrivare intorno alla striscia di Gaza per completare l’assedio in attesa dello sfondamento. Un assedio che esiste già da tempo per quanto riguarda lo spostamento di persone e il transito di merci: basta chiudere tre cancelli. Un sistema lucido ed efficiente che inneggia al trionfo della tecnologia.
Il primo cancello, a nord, porta verso Israele ed è sotto completo controllo israeliano. E’ usato soprattutto dai lavoratori: per attraversarlo bisogna essere muniti di permessi, subire mortificanti trattamenti, sopportare estenuanti tempi di attesa. Così la fila inizia a formarsi già alle tre di notte per cominciare a passare dall’altra parte verso le sei del mattino. Dopo inizia un altro viaggio verso il posto di lavoro. Il tutto due volte al giorno: andata e ritorno.
Il secondo cancello è a sud di Gaza e porta in Egitto. Formalmente è sotto il controllo dei palestinesi insieme agli osservatori intenzionali che devono garantire il rispetto delle regole imposte da Israele: attraverso un sofisticato sistema di videocamere la postazione israeliana distante poche centinaia di metri può controllare in tempo reale i passeggeri. In entrata ed in uscita si deve passare attraverso il metaldetector ed esibire permessi e carta di identità ai soldati che stazionano nella torretta, con l’ausilio appunto di un telecamera.
Il terzo cancello, in territorio israeliano, riservato al passaggio delle merci provenienti da Israele, unico partner commerciale per monopolio di fatto, e dall’Egitto.
Attraverso questo sistema di cancelli, Israele è in grado di monitorare a suo piacimento tutto quello che entra ed esce dal grande Ghetto: persone, merci, macchinari, medicinali mentre per l’acqua il controllo avviene alla fonte. Basterebbe chiudere questo cancello per 24 ore per determinare un’emergenza umanitaria (come per altro sta avvenendo da diverse settimane).
Un altro sistema di controllo ancora più sofisticato è composto da satelliti, aerei spia, mezzi di ascolto e reti telefoniche che permettono ad Israele di ascoltare e vedere tutto ciò che avviene dentro questo Ghetto. Aerei, elicotteri, carri armati e forze speciali possono intervenire in qualsiasi momento per punire, uccidere e condizionare anche i momenti più intimi della vita quotidiana. In queste condizioni i palestinesi discutono di guerra e pace, libertà ed occupazione, morte e vita, moderazione ed estremismo e, negli ultimi anni, di laicità e religione. Ed in queste condizioni ha vinto Hamas alle ultime elezioni, a detta di tutti, democratiche.
Da quasi due anni, Hamas ha dichiarato una tregua unilaterale che ha rispettato fino a domenica, ha partecipato ad elezioni democratiche con il preventivo consenso americano ed israeliano accettando due principi fondamentali. Primo: il principio di partecipare al meccanismo democratico dell’alternanza al potere, che rappresenta una svolta storica e dirompente rispetto alla storia dei movimenti islamici, e potrebbe costituire uno sbocco strategico per l’evoluzione in senso democratico dei movimenti politici di matrice islamica in tutta la regione. Questo sviluppo ha determinato una profonda frattura, anche culturale, dentro l’islam politico e dentro la stessa Hamas, dove la componente dei territori palestinesi occupati si è distinta da quella della diaspora.
Secondo: con linguaggio molto prudente, Hamas ha dimostrato vivo interesse alla soluzione politica del conflitto nell’ambito di due stati per due popoli. Lo ha dimostrato rinnovando il proprio impegno a mantenere la tregua, pur con mille difficoltà interne, e anzi addirittura proponendone una di cinquant’anni. Rispetto a questa soluzione politica, Hamas avrebbe voluto sentire parole chiare dal governo israeliano, ma ha ricevuto soltanto isolamento: israeliano, arabo ed internazionale.
Anche l’atto di buona volontà compiuto con la partecipazione alla scrittura del documento dei prigionieri, è stato utilizzato dall’Anp per accelerare la caduta del governo di Hamas con la complicità dell’embargo imposto sui territori palestinesi.
Il braccio armato di Hamas che ha compiuto l’ultima operazione sul territorio israeliano, e che tiene prigioniero il soldato rapito, è più vicino politicamente a alla parte esule di Hamas e da lì riceve i suoi ordini. Questa operazione testimonia una svolta, sancisce l’inizio di una fase nuova, in cui la questione palestinese viene consegnata nelle mani di un più vasto movimento islamico nella regione, un movimento che non crede nelle intenzioni della comunità internazionale di favorire una soluzione politica. Un tentativo di legare il destino della Palestina alla sconfitta della guerra americana contro l’Iraq e l’Afghanistan e alle minacce contro l’Iran e la Siria.
Non bisogna dare ad Israele, ed alle frange estremiste, il potere di trascinare la regione verso una incalcolabile catastrofe. Occorre invece pretendere anche da Israele il riconoscimento dello stato palestinese entro i confine del 1967, così come si chiede ad Hamas di fare altrettanto con Israele. Occorre adoperarsi per la liberazione del soldato israeliano catturato, ma anche vigilare sui diritti umani violati costantemente da Israele.
Evitare la carneficina che Israele minaccia di compiere nei prossimi giorni è l’unica strada per uscire da una situazione da tempo bloccata.