Gaza: è un giorno di festa, ma la strada è ancora lunga

Bandiere nazionali palestinesi, drappi neri e verdi degli islamici, gruppi di giovani esultanti che cercano di avvicinarsi agli insediamenti per vedere i coloni che se ne vanno o che vengono (da stamani) allontanati con la forza: così i palestinesi della striscia di Gaza stanno festeggiando il ritiro israeliano in corso da 48 ore. Un sentimento di festa e di esultanza comprensibile, condiviso anche dai palestinesi della Cisgiordania e da quelli della diaspora; scene di festa vengono infatti segnalate dai campi profughi del sud Libano come da quelli nei dintorni di Amman in Giordania, pur non mancando qui anche espressioni di scetticismo da parte di chi prevede che Gaza diventerà di fatto «niente più che una grande prigione a cielo aperto» o di chi dichiara che «danzerà nelle strade solo quando Gerusalemme sarà di nuovo nostra». Esplicita e organizzata la mobilitazione di Hamas i cui militanti hanno esaltato il ritiro israeliano come una loro vittoria.
Sharon certamente lo aveva messo in conto e non a caso nel suo discorso dell’altra sera ha lanciato un chiaro messaggio all’Anp e al suo presidente Mahmud Abbas, affermando che «il mondo li guarda» e che sta adesso a loro rispondere al gesto di Israele scegliendo «la pace o il fuoco del terrore». Abbas il messaggio lo ha capito benissimo e ha infatti mobilitato 7.500 agenti di polizia per impedire che da parte palestinese si dia adito a qualsiasi incidente, soprattutto nella seconda delicata fase del ritiro, quella forzosa.

Sia lui che Sharon sanno comunque che la festa e l’esultanza sono inevitabili: per la prima volta dopo 38 anni di occupazione gli abitanti della striscia di Gaza vedono gli israeliani – soldati e coloni – andarsene per davvero e si preparano a tornare nel pieno possesso della loro terra. Il ritiro che sta mettendo in atto Sharon è infatti ben diverso da quello compiuto da Rabin dodici anni fa in base agli accordi di Oslo.

Quegli accordi furono detti «Gaza e Gerico subito» perché proprio da lì era partito anche allora il ritiro delle truppe israeliane, ma ai palestinesi erano state restituite solo le città e le zone da loro abitate, mentre le colonie ebraiche erano rimaste al loro posto e con esse i soldati, le installazioni militari e i posti di blocco destinati a proteggerle. Si realizzò così una ibrida e difficile coesistenza che portava in sé – a Gaza come in Cisgiordania – i germi della crisi e della seconda Intifada: l’Anp amministrava soltanto metà dei 380 km quadrati della Striscia, mentre l’altra metà restava occupata dai soldati e dai coloni; una ripartizione squilibrata ed iniqua, con un milione e trecentomila palestinesi ammassati nella stessa quantità di territorio su cui vivevano tra serre e giardini, ottomila coloni ebrei.

Oggi la situazione è ben diversa, oggi ai palestinesi viene restituita la totalità del territorio di Gaza, rendendoli – per ora solo potenzialmente – davvero padroni in casa loro. Anche se ci vorranno diverse settimane, almeno fino a ottobre, come ha ricordato il ministro israeliano della Difesa Mofaz esortando i palestinesi a «non affrettarsi a festeggiare» perché partiti i coloni le loro case dovranno essere distrutte (decisione questa antieconomica e ingiusta e quindi difficilmente comprensibile, anche se serve forse a Sharon per tentar di ammorbidire i suoi critici da destra) e solo dopo l’esercito completerà il suo ritiro oltre i confini della Striscia. Ma l’allungarsi dei tempi non cambia la sostanza delle cose ed è comprensibile che il clima di festa e la spinta a cantar vittoria siano forse più forti e più diffusi che dodici anni fa.

Come ogni evento storico, anche questo ritiro viene vissuto da protagonisti e spettatori ciascuno a suo modo: dai palestinesi appunto come un motivo di festa e una vittoria, dagli avversari israeliani di Sharon come una «resa al terrorismo» e un tradimento verso «il carattere ebraico della Terra di Israele», dall’amministrazione Bush come un catalizzatore per la rimessa in moto della «road map», da Abbas e dall’Anp come l’occasione per tornare al tavolo negoziale da pari a pari, da Sharon probabilmente come uno strumento per rafforzare la presa sulla Cisgiordania (o almeno sui blocchi di colonie là presenti).

Ognuno a suo modo dunque, ma i fatti hanno una loro realtà con la quale tutti devono fare i conti. Al di là della retorica e delle illusioni. «Quattro anni di Intifada sono meglio di dieci anni di negoziati di pace», si leggeva ieri su uno striscione di Hamas. Ognuno evidentemente può pensarla come vuole; sarebbe tuttavia irresponsabile, oltre che pericoloso, non cogliere fino in fondo l’occasione che il ritiro da Gaza offre, al di là delle stesse intenzioni di chi lo ha voluto.