Saranno considerati martiri dell’Intifada i quattro malati morti allo Shifa Hospital di Gaza a causa della mancanza di fondi per pagare i farmaci per la chemioterapia e la dialisi? Probabilmente no. Sono morti in silenzio in un letto d’ospedale. Dunque niente scene di funerali con ragazzini con la fascia verde dell’islam sulla fronte e uomini con volto coperto e kalashnikov in braccio alla televisione. L’immagine di Gaza per antonomasia. I letti di ospedale vuoti o i banchi del mercato con i prezzi ribassati non fanno notizia.
L’agonia di Gaza non comincia oggi. Ma con la crisi economica provocata dal taglio degli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) e dalle continue chiusure del valico di Karni (principale punto di passaggio delle merci nella Striscia) imposte da Israele, il male è arrivato allo stadio terminale. All’ospedale di Gaza City mancano anche materiale per le ingessature e l’anestetico. «Siamo cercando di minimizzare la lista delle operazioni a quelle più urgenti» ha riferito al quotidiano statunitense “The Washington Times” il Dr. Ibrahim ei Habash, che ha lanciato un appello affinché la comunità internazionale, leggi Stati Uniti ed Unione Europea, distingua tra questioni politiche e questioni umanitarie. Gli infermieri dell’ospedale a cui non è stato pagato lo stipendio a causa dell’embargo economico imposto ai palestinesi da quando Hamas è al governo, hanno smesso di lavorare.
Siamo al secondo mese di taglio dei fondi all’Autorità Palestinese (Anp). Sono dunque due mesi che, oltre a medici e infermieri, chi fa l’insegnante o l’impiegato pubblico non prende lo stipendio. La settimana scorsa il ministro della Salute Bassem Niam ha chiesto aiuto ad organizzazioni internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani per impedire l’insorgere di una crisi sanitaria e umanitaria a Gaza. Probabilmente è già tardi.
Non si tratta di un allarmismo del Ministro palestinese. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha parlato di “rapido declino” e “possibile collasso” del sistema sanitario nella West Bank e a Gaza, se la crisi finanziaria dovesse perdurare.
Già una quindicina di giorni fa un giovane farmacista della zona del mercato a Jabalia (nord di Gaza), il Dr. Yacoub al Balsam, 26 anni, ci aveva espresso la sua preoccupazione per la carenza di scorte in magazzino di medicinali “salvavita” destinati a malati cronici. «Le persone arrivano con la prescrizione medica e le dobbiamo mandare via – aveva detto il Dr. Balsam -. Manca anche il latte per i neonati. Altre due settimane così e non so cosa succederà».
La crisi sanitaria costituisce forse l’aspetto più drammatico della crisi economica imposta a Gaza dalle scelte di alcuni governi occidentali e da Israele.
Di fronte alla farmacia del Dr. Balsam c’è un “parcheggio” di asini col carretto. All’angolo della strada su una bancarella sono in vendita prodotti su cui spicca il logo blu con le stelle gialle disposte a cerchio, dell’Unione Europea (Ue) e la scritta Unrwa. La signora Miriam Dahman, 75 anni, piccola e col volto solcato da profondi segni del tempo, ha appena venduto, all’ambulante del mercato, Fadel Hamed, il latte della sua “razione” di aiuti umanitari. «Devo comprare la verdura», dice sbrigativa la signora, che afferma che per sopravvivere a Jabalia le occorrerebbero almeno 60 Nis al giorno (10 dollari circa) «ma io non arrivo nemmeno a 35». Stessa sorte condivisa probabilmente da chi ha venduto al signor Fadel le lattine di olio dell’Unione europea e la farina delle Nazioni Unite.
L’unico che fa affari a Jabalia è il cambiavalute. Una giovane donna il cui velo nero sul volto lascia intravedere begli occhi scuri, Ami Imam, laureata in pedagogia ed attualmente disoccupata, ha appena cambiato gli ultimi 10 dollari che le erano rimasti.
Tra i banchi del mercati di Jabalia non è difficile raccogliere commenti. La frustrazione e la voglia di gridarla è grande, come la rassegnazione. «Lo sai come si dice da noi? Che mangeremo la merda», dice un venditore di prodotti di merceria. I calzini si rammendano e lui non ne vende di nuovi. Di questi tempi a Gaza si compra l’essenziale. Dunque, poco più avanti, sui banchi della macelleria del signor Abdel Hadi al Dikkis, la carne di vitello ha il tempo di seccarsi all’aria aperta. «Questa è una carne che prima si vendeva bene – dice il macellaio -. Ora direi che solo un 20% dei miei clienti la può ancora comprare». Gli chiediamo come tira avanti: «Che dobbiamo fare? Viviamo sullo stesso pianeta, stringiamo la cinghia come gli altri».
In periodi di crisi, il bene “rifugio” per eccellenza, l’oro arriva alle stelle. Il corso del metallo prezioso è in costante aumento da almeno un paio di anni. I ciondoli, le catenine ed i bracciali esposti nelle vetrine delle oreficerie di Jabalia, vengono spostate solo per togliere la polvere. Ahmed Wadie, 23 anni, giovane orefice che continua la tradizione di famiglia, spiega che quest’anno i matrimoni sono diminuiti a Gaza. Lui è un esperto. Il business delle cerimonie di nozze è stagionale. Ed è per questo che per gli orefici il periodo tradizionale per gli affari era la stagione primavera-estate. Adesso il commercio si è invertito. Le donne vanno al suo negozio per vendere l’oro di famiglia. «C’è chi mi ha venduto oro vecchio di trent’anni. Non eravamo mai arrivati a questo punto» dice Ahamed. «Senza imbarazzo diciamo che è vietato fare credito fino a quando non saranno pagati gli stipendi agli impiegati pubblici». Niente più barba e capelli dal barbiere a Khan Younis (sud di Gaza), secondo quanto riportato ieri dal quotidiano arabo “al-Sharq al-Sawat”, in un articolo di denuncia della forte crisi economica palestinese. Ahmed, un giovane barbiere ha dovuto chiudere il negozio perché non ne poteva più di riempire quaderni con l’elenco dei tagli di capelli effettuati a credito nel suo quartiere. Avrà più tempo per stare coi suoi due figli e magari per darsi da fare e trovargli qualcosa da magiare.