Gaza ad alta tensione Hamas chiude i ministeri

Non basteranno gli appelli alla calma e all’unità nazionale a cancellare la «domenica nera» di Gaza, costata la vita a otto persone, tra cui tre civili, e il ferimento di altre 130. Quella di due giorni fa è una ferita profonda, difficile da rimarginare, perché mai come in questi giorni la tensione tra Hamas e Al-Fatah, o meglio tra il governo e la presidenza dell’Anp, è stata tanto alta. L’esecutivo di unità nazionale ormai è un miraggio. Washington e Tel Aviv probabilmente sorridono e pensano che sta per realizzarsi il disegno che vede il presidente Abu Mazen sciogliere con un decreto l’esecutivo di Hamas e convocare nuove elezioni politiche e presidenziali, come peraltro anticipava ieri il quotidiano arabo Al-Khalij riferendo indiscrezioni raccolte durante i recenti viaggi del rais palestinese in varie capitali arabe. Una mossa che potrebbe rappresentare la scintilla della guerra civile, di un bagno di sangue che nessun palestinese vuole, nella consapevolezza che farebbe solo gli interessi di chi sta lavorando per ottenere la creazione di uno stato palestinese senza sovranità reale. Sullo sfondo ci sono 3 milioni e mezzo di palestinesi che devono fare i conti ogni giorno con l’occupazione militare israeliana, il blocco economico di Cisgiordania e Gaza e il continuo deteriorarsi delle condizioni di sicurezza.
Ieri, dopo il ritiro della forza speciale di Hamas, dispiegata in strada a Gaza dal ministro dell’interno Said Siam allo scopo di impedire le proteste per il mancato pagamento dei salari – attuate da giorni dagli agenti dei servizi di sicurezza fedeli ad Abu Mazen – non ci sono state altre vittime ma la giornata è stata segnata ugualmente da episodi di violenza. Non sono serviti a molto gli appelli alla calma lanciati da Abu Mazen e dal premier Ismail Haniyeh. All’ospedale Shifa di Gaza city almeno tre persone sono rimaste ferite in uno scambio di colpi d’arma da fuoco durato una ventina di minuti fra guardie di Hamas e miliziani di Fatah che accompagnavano i parenti di un palestinese ucciso domenica, giunti a ritirarne il corpo. Medici e pazienti si sono dovuti mettere al riparo per non venir colpiti. A Nablus (Cisgiordania), militanti di Fatah hanno aperto il fuoco contro le guardie del corpo del vice primo ministro Nasser Shaer, ferendone due, mentre a Beit Hanun (Gaza) un gruppo di studenti ha prima dato fuoco al ministero dell’agricoltura e poi hanno lanciato sassi contro l’abitazione di un ministro di Hamas. Si è concluso invece senza conseguenze il breve rapimento di Samir Birawi, esponente di Hamas e funzionario del ministero delle finanze, sequestrato da militanti armati che gli hanno anche bruciato l’auto. Hamas da parte sua ha ordinato la chiusura di tutti i ministeri in risposta alle contestazioni, ma a questa decisione Fatah ha replicato proclamando a Ramallah uno sciopero generale. Incidenti anche a Gerico, dove è stato ucciso un negoziante. A Hebron sono stati devastati gli uffici dei deputati di Hamas e scontri a fuoco sono avvenuto anche a Jenin e Qabatiya, dove è stato anche attaccato un centro culturale vicino al movimento islamico. Si attendono ora le decisioni che Abu Mazen prenderà dopo il suo rientro a Ramallah, previsto oggi, al termine della visita in alcune capitali arabe.
In questo clima di tensione altissima tra qualche ora giungerà in Israele e Territori occupati Condoleezza Rice ma l’obiettivo principale del Segretario di stato non è quello di proporre soluzioni a israeliani e palestinesi ma invece compattare e far emergere un «fronte moderato arabo» da contrapporre all’Iran. Oggi Rice parteciperà a una riunione del Consiglio di Cooperazione del Golfo – di cui fanno parte le petro-monarchie arabe alleate di Washington – alla quale saranno presenti anche anche il presidente egiziano Mubarak e re Abdallah di Giordania. Gli Stati Uniti sperano ottenere un «sì» a mezza bocca degli arabi «moderati» alla loro proposta di sanzioni (se non di peggio) contro Tehran ma a Riyadh e nelle altre capitali del Golfo se da un lato è forte l’ostilità verso il programma nucleare iraniano dall’altro nessun leader locale è disposto ad esporsi. Ieri un noto analista arabo, Abdallah Iskandar, di Al-Hayat, ha «spiegato”» al Segretario di stato che se gli Usa sono realmente interessati a rilanciare il ruolo dei Paesi arabi «moderati» e a ridurre l’influenza dell’Iran nella regione, allora devono risolvere con giustizia la questione palestinese e molti altri nodi, compreso quello iracheno. Dovrebbero ridare fiato al piano arabo del 2002 (prevede il ritiro completo di Israele dai territori siriani, libanesi e palestinesi che occupa, in cambio del riconoscimento da parte del mondo arabo) e fare pressioni su Tel Aviv affinché rinunci alla sua politica di «soluzione militare» dei problemi per scegliere invece la via del negoziato e del rispetto della legalità internazionale.