Gamal Ghitani: «Occidente e Islam non scordate le radici comuni»

E’stato corrispondente di guerra nei conflitti arabo-israeliani. Nel 1966 lo hanno arrestato con l’accusa di far parte di una formazione marxista clandestina. L’esordio sulla scena letteraria risale alla pubblicazione nel ’69 di una raccolta di racconti, Carte di un giovane vissuto mille anni fa, una rielaborazione a caldo sulla sconfitta egiziana nella Guerra dei sei giorni e la perdita del Sinai. Gamal Ghitani – che figura fra i tre vincitori designati dalla giuria del premio letterario Grinzane Cavour (quest’anno alla XXV edizione) per la narrativa straniera, assieme alla colombiana Laura Restrepo e al portoghese Miguel Sousa Tavares – è nato nel ’45 nella cittadina di Giuhayna, ma si è trasferito presto con la famiglia di povera condizione al Cairo. Vive lavorando come apprendista in una fabbrica di tappeti. Finisce gli studi all’istituto di belle arti e dirige una rivista con i principali intellettuali egiziani del dissenso degli anni ’60, Gallery 68. Ma il romanzo che rende Ghitani celebre nel suo paese e all’estero, appare nel ’74 sotto il titolo di Zayni Barakat (in Italia pubblicato da Giunti, pp. 352, euro 11,35). E’ ambientato al Cairo tra il 1516 e il 1517: si fronteggiano due potenze, il sultanato mamelucco che governa il paese, ma in palese decadenza, e l’impero ottomano in rapida espansione. In uno scenario di personaggi variopinti – mercanti, pastori, spie al servizio della polizia segreta, donne di grande carica erotica – si gioca anche la lotta spregiudicata tra il protagonista Zayni Bakarat e il capo della polizia segreta Zakarìya, ambedue però accomunati dalla ricerca dell’interesse personale. Finiscono per strumentalizzare politica e religione pur di soddisfare i propri egoismi. Un modo per raccontare attraverso quella epoca storica il declino e la delusione dell’Egitto di Nasser. L’opera che gli è valsa la designazione nella terna dei narratori stranieri al Grinzane (fra loro, oggi, uscirà il supervincitore) è però Schegge di fuoco (edizioni Jouvence, pp. 122, euro 10,00), una raccolta di racconti scritti tra il ’92 e il ’96 nei quali si condensano il tema del viaggio, della scoperta, del mistero, l’esperienza autobiografica politica e la cornice del Cairo.

“Schegge di fuoco” racconta di personaggi spaesati. Ma questa è una situazione tipica per molti suoi connazionali che vivono e lavorano in un paese straniero. Non crede che la narrativa araba debba ormai raccontare la loro prospettiva?

L’ho fatto fin dagli anni ’70. Allora ci fu la svolta liberista di Sadat, molti emigrarono in cerca di lavoro verso i paesi del petrolio, soprattutto verso l’Arabia Saudita. E ne tornavano molto più religiosi di prima. L’Egitto è sempre stato un paese agricolo, legato alla terra, con una forte identità. Ma c’è anche un’emigrazione di grande proporzioni dovuta alla povertà. Poi ci sono altri emigranti, i laureati, che l’Egitto produce in eccedenza.

Nel suo romanzo più famoso, “Zayni Bakarat”, allude al declino del governo di Nasser, alla delusione per la sconfitta del nazionalismo arabo progressista. Ha lasciato delle tracce quel modello di autonomia?

Nasser è stato un simbolo per l’Egitto e per tutti i paesi arabi. Aveva un consenso reale, era molto vicino alle masse, ai poveri, è stato molto amato. Ma ha fallito su due questioni, a mio giudizio. Da un lato, si è rivelato un regime non democratico, dall’altro non è riuscito a costruire l’unità araba. Ancora oggi io posso viaggiare col mio passaporto in tutti i paesi europei ma ho difficoltà ad andare in quelli arabi. Oggi dobbiamo lavorare più realisticamente a un’unità intellettuale. Cosa è rimasto? Io mi sento vicino all’ideologia di sinistra, anche se non c’è nessun partito in Egitto che possa essere definito di sinistra. Negli anni ’60 e ’70 sono stato comunista militante, ho avuto problemi. Oggi dirigo un giornale importante (una rivista letteraria, Akhbàr al-Adab, ndr). Sono per la libertà, sono uno scrittore libero, mi sento vicino al popolo. Oggi, il partito che potrebbe essere più vicino alla sinistra dei decenni passati, sono i Fratelli musulmani. Hanno la stessa inclinazione politica, sono vicini alle masse, dimostrano una solidarietà sociale.

Si dice che in Islam, a differenza dell’Occidente, non ci sia separazione tra politica e religione. E’ vero oppure si dimentica che nella storia dell’Islam c’è stata una corrente mistica, quella dei sufi che si ritiravano dalla vita politica per una ricerca spirituale interiore?

L’Islam non è un tutto indistinto, c’è una differenza tra il potere religioso e quello politico. E ci sono tante correnti tra le quali, appunto, quella dei sufi alla quale si rifà l’Islam egiziano. Chi dice che c’è solo la religione e che questa, a sua volta, sia indistintamente fondamentalismo, cade in una visione semplicistica, equipara di fatto tutti gli islamici a terroristi e a nemici dell’Occidente. E’ una cosa che mi rattrista perché sento l’Occidente come una parte di me. C’è una storia comune. E del resto anche gli occidentali non devono dimenticare che parte delle loro radici viene dalla civiltà islamica. E agli arabi dico che non devono, a loro volta, considerare l’Occidente un unico blocco. Sono due mondi in divenire. Anche l’Islam continua ad andare avanti. Vorrei un miglioramento della società, vorrei che la religione diventasse una forza positiva di progresso, vorrei una sanità migliore. Ma tutto questo deve venire dall’interno del paese, non dall’esterno. Una società migliore non può essere esportata con la guerra.

Non si può pensare a un mondo musulmano pacificato se non si risolve la questione palestinese. Eppure oggi è difficile parlarne. Criticare la politica dello stato israeliano significa esporsi all’accusa di antisemitismo. O no?

Anche gli arabi sono semitici. Io odio il razzismo, ho parlato e scritto contro l’Olocausto. Il problema è la politica di Israele in quanto Stato. La politica può accettare un muro che imprigioni un popolo? E’ un’offesa al genere umano. Israele rappresenta un pericolo per i palestinesi. Entrambi i popoli hanno diritto di esistere su quel territorio. E questo è un problema che va affrontato con la politica. Non c’entra niente il razzismo. Sono fermamente contrario alla sola idea che un uomo possa essere ucciso per la sua religione o per il suo colore della pelle. Il problema non è la religione ebraica. Il problema è la politica israeliana. Non dimentichiamo che Israele è da anni che possiede la bomba atomica, nessuno ha mai protestato per questo. Lo scandalo esplode solo nel caso dell’Iran, ma queste cose oggi non si possono dire!