G8, quella notte la polizia «tradì»

I tentativi di mediazione erano andati avanti fino alla notte tra giovedì 19 e venerdì 20 luglio, i contatti con i «disobbedienti» accampati allo stadio «Carlini» li tenevano i funzionari delle Digos di Bologna, di Milano e del Veneto. Il «canale» era rimasto aperto fino a quella notte di pioggia e di preparativi con il cuore in gola, almeno fin quando la polizia piazzò i container lungo il percorso del corteo, nella zona gialla che circondava quella rossa, chiusa da mostruose grate. I poliziotti buoni avevano rassicurato: «Se state nel percorso autorizzato va tutto bene, altrimenti cariche proporzionate». Come al solito. I «disobbedienti», che annunciavano pubblicamente di voler violare le consegne, capirono che li avrebbero caricati in piazza Verdi, dunque prima delle grate: e allora addio alla scalata coi rampini, la rappresentazione dell’«assedio». Le comunicazioni furono interrotte dalla polizia solo la mattina del 20. All’improvviso telefoni staccati, anche per i deputati come Paolo Cento e gli altri del «gruppo di contatto» con le forze dell’ordine. La mediazione era stata un bluff, il tradimento della polizia era consumato prima ancora che iniziassero le manifestazioni.

L’agguato di via Tolemaide
Qualche ora dopo le ex tute bianche, «ex» proprio da quel giorno, si mossero dal «Carlini», con gli scudi di plexiglass e le protezioni di gommapiuma. E vennero attaccate in via Tolemaide, c400 metri prima di piazza Verdi, verso le 14,30, lungo un tratto del percorso autorizzato da questore e prefetto. Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa social forum, sventolerà l’ordinanza davanti al comitato parlamentare di indagine. Delle cariche violentissime dei carabinieri sono responsabili anche i dirigenti della polizia, nessuno si è mai assunto la responsabilità, al processo hanno parlato di lanci di oggetti che nei filmati non si vedono, o almeno non provenivano dal corteo del «Carlini».
Altri picchiatori in divisa si erano scatenati poco dopo le 12 in piazza Manin, la piazza dei pacifisti non violenti e «pink», Lilliput e donne in nero. Un’ora dopo la comparsa del black bloc in piazza Paolo Da Novi, con il pretesto di rincorrere qualche centinaio di «neri» che sfasciavano tutto e hanno continuato a farlo – non perché «protetti» da chissà chi ma perché difficili da fermare – la polizia ha travolto la manifestazione più tranquilla. Botte da orbi a donne che alzavano le mani, almeno due risarcite dal Viminale per ordine del giudice civile di Genova, nonostante l’impossibilità di identificare gli autori. L’onorevole Elettra Deiana che cercava un funzionario della polizia con cui parlare, come aveva e ha sempre fatto a Roma, ne uscì con la testa rotta. Ma via Tolemaide fu l’inizio della battaglia: ore di scontri, i blindati lanciati tra la folla a tutta velocità; i pestaggi, le sassaiole e qualche molotov. Un mezzo dei carabinieri fu incendiato, nessuno prese armi né ferì i militari in fuga. Fino alle 17,27, piazza Alimonda. Due colpi secchi e un ragazzo a terra per liberare la strada a una jeep che aveva seguito un plotone di carabinieri nella carica. Quelli che uccisero Carlo Giuliani non furono gli unici colpi di pistola, altri 18 li esplosero i carabinieri secondo le loro stesse relazioni di servizio, uno lo sparò in aria un poliziotto come documentò l’indagine interna del prefetto Lorenzo Cernetig.

Compagnie e nuclei speciali per il G8
La battaglia di Genova era stata programmata dai vertici di polizia e carabinieri sotto ben due governi. Silvio Berlusconi si era insediato solo a giugno, un mese prima del G8. L’esecutivo era guidato da Giuliano Amato durante la prova generale del Global forum di Napoli, 17 marzo 2001: le cariche in piazza Municipio chiusa come una tonnara; le prime eroiche gesta dei reparti inquadrati della Guardia di finanza in precedenza mai impiegati in piazza e violentissimi a Genova; gli abusi sugli arrestati alla caserma Raniero Virgilio, prologo riuscitissimo della vergogna di Bolzaneto. Al Viminale c’era Enzo Bianco quando fu costituito il nucleo speciale antisommossa all’interno del reparto mobile (ex celere) di Roma, i super-picchiatori senza volto che diventeranno famosi nel mondo per il massacro della scuola Diaz, in realtà commesso insieme ad almeno un centinaio di agenti e funzionari di altri reparti, mai individuati dai pur coraggiosissimi pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona.
Con ancora maggiore anticipo, sempre sotto l’autorità del governo Amato-Bianco, l’arma dei carabinieri aveva cominciato i preparativi fin dagli ultimi mesi del 2000, utilizzando tra l’altro il centro di addestramento della Gendarmerie francese Saint-Axtier. Usi obbedir tacendo, i carabinieri si presentarono a Genova con i parà e i loro blindati da guerra, mai visti in piazza né prima né dopo. E un inaudito sistema di compagnie speciali Ccir, ovvero «di contenimento e intervento risolutivo», create per l’occasione e affidate a una catena di comando di ufficiali paracadutisti del Tuscania e della seconda brigata mobile, normalmente impiegata nelle missioni più o meno belliche all’estero.
Il comandante delle truppe dell’arma era l’allora colonnello Leonardo Leso, in seguito promosso generale e comandante dell’intera brigata, oggi a capo del Coespu di Vicenza, Centro di eccellenza per le stability police units, una scuola di peacekeeping finanziata dagli Usa. Il defender dal quale Mario Placanica, carabiniere di leva, uccise Carlo Giuliani, era in dotazione a uno dei suoi ufficiali, Claudio Cappello, più avanti addestratore di poliziotti iracheni a Nassiriya e scampato alla strage del 12 novembre 2003. In piazza Alimonda c’era anche il colonnello Giovanni Truglio. Entrambi erano stati in Somalia nella missone a guida Usa Restore hope al centro di denunce di torture.

Un comando Usa, stop ai controvertici
C’era un comando americano anche dietro la grande repressione di Genova, ben rintracciabile negli apporti Usa alla strategia dell’allarmismo messa in campo prima del luglio 2001: la stessa intelligence creativa che si dedicherà animo e corpo alla guerra al terrorismo del dopo 11 settembre. Il movimento antiglobalizzazione all’apice della sua forza, da Seattle 1999 in poi le contestazioni ai vertici internazionali in Europa non avevano mai mobilitato centinaia di migliaia di persone, né ci riusciranno dopo Genova.
Almeno duecentomila sfilarono sabato 21 luglio sul lungomare all’indomani del venerdì di sangue, nuovamente attaccati da polizia e finanza: la «miccia» fu un lancio di bottigliette di minerale in piazzale Kennedy. Arrivò a Genova anche il prefetto Arnaldo La Barbera, eroe dell’antimafia legato al capo della polizia Gianni De Gennaro e allora capo dell’antiterrorismo: è scomparso nel 2002. La polizia si ritrovava con un morto e seicento feriti, danni ingenti e solo un centinaio di «teppisti» arrestati: a sera cominciarono i rastrellamenti con i «pattuglioni», quindi la perquisizione notturna alla scuola Diaz, dormitorio del Gsf. Fu un massacro. Ma l’indomani, al tavolo degli otto grandi, Silvio Berlusconi rivendicò con entusiasmo l’arresto dei 93, avvenuto in base a prove che saranno dichiarate false come le due bottiglie molotov portate alla Diaz dagli stessi poliziotti. La perquisizione era stata decisa dai fedelissimi di De Gennaro. Sui verbali di arresto che oggi valgono un processo per falso e calunnia ci sono tredici firme di funzionari, volevano tutti mettersi la medaglia. Una di quelle firme è rimasta illeggibile, il trentesimo imputato si è salvato così. I suoi colleghi hanno tradito la democrazia, la Costituzione e la legge, perfino l’ordinanza del questore, ma il suo nome non l’hanno fatto.