G8, otto grandi fantasmi

Si tenga a Genova, oppure no, il primo G8 del XXI secolo, si può dire fin d’ora che quello di Okinawa, l’anno scorso, è stato l’ultimo. L’ultimo dei grandi circhi mediatici, l’ultimo della globalizzazione trionfante, l’ultimo a tenersi in una grande città del mondo moderno, centrale o periferica non importa.
Questo non vuol dire che non ce ne saranno altri, al contrario. Ci saranno, sicuramente, gli incontri tra coloro che si muovono sul proscenio del mondo (anche se non tutti i loro partecipanti saranno i veri detentori del potere), ma si dovrà rinunciare alla scenografia, bisognerà studiare luoghi deserti o lontani, inaccessibili. Saranno incontri quasi in teleconferenza. Gli ultimi della serie, Colonia, appena prima di Seattle, Okinawa appunto, erano già appuntamenti dove il contatto tra leader del mondo e grande corteo dei media era stato ridotto quasi a nulla. Saranno come il prossimo incontro del Wto, nella lunare capitale del Qatar. Come in un vecchio racconto di fantascienza, i reggitori del mondo ricco e “civilizzato” si dovranno nascondere al mondo per scambiarsi impressioni e prendere decisioni che dovrebbero influenzare il mondo, senza chiederne il parere.
Chi ha deciso per Genova, poco più di un anno e mezzo fa, non si era reso conto di ciò che Seattle aveva significato. Che non era soltanto la nascita del cosiddetto “popolo di Seattle”. Era l’irrompere prepotente, sulla scena della globalizzazione, delle sue contraddizioni. A riprova che tra legge di gravità e globalizzazione c’è una differenza fondamentale: la prima non soffre di contraddizioni, perché non dipende dagli uomini. In questo senso il “popolo di Seattle” era molto di più di una pur grande massa di contestatori, per giunta in gran parte figli di quello stesso mondo ricco che i “sette” rappresentano (la Russia, l’ottavo, c’è per altre ragioni, tra cui l’esigenza di dare un contentino a Eltsin).
Il 1999 veniva dopo la crisi asiatica del 1997, dopo il crollo russo e quello brasiliano del 1998. Il 1999 è stato l’anno della prima guerra del mondo monopolare, quella del Kosovo. Il 2000 ha regalato al mondo la fine dell’illusione sulla crescita indefinita di velocità della “locomotiva americana”. Anni di incertezze crescenti e di angosce, di illusioni che precipitano e di divaricazioni sempre più acute perfino nel campo occidentale che appare sempre meno compatto e sicuro. Anni dove si vede sempre meglio – nonostante il circo mediatico mondiale faccia di tutto per nasconderlo – che il nostro pianeta va non si sa dove, né a quale velocità. Anni dove ci si accorge – come ha scritto Lester Brown – che siamo al centro di due tremendi deficit: di leadership e di tempo.
Ci vorrebbero leader capaci di provare a parlare a coloro che protestano. Prima di Genova si sarebbe potuto fare, almeno tentare. La sinistra al governo non è stata capace neanche di questa immaginazione, a riprova che la sua comprensione del quadro mondiale non era migliore di quella del quadro nazionale. Certo non sarebbe servito a disinnescare la protesta dei violenti (dei quali si parla come se venissero da un altro pianeta invece che riconoscere che sono figli di questa globalizzazione, anche loro, come quelli che muoiono di fame negli altri continenti). Ma sarebbe stato utile per cercare di capire. Visto che su molte questioni cruciali anche quelli che staranno chiusi nelle stanze del G8 hanno molte cose da capire. E per tentare un contatto. Adesso il tempo è poco. Ma ce n’è ancora per fare qualche gesto significativo, prima che scoppi una bagarre sul cui esito nessuno potrà scommettere un centesimo.