Il dibattito americano sulla guerra in Iraq è entrato in una nuova e drammatica fase. Per la prima volta un democratico di spicco, il membro del Congresso John Murtha, si è pronunciato per il ritiro delle forze americane dal paese. Le parole di Murtha hanno avuto un impatto rilevante perché egli era stato in passato un sostenitore della guerra, e perché la sua carriera precedente era stata caratterizzata da un profilo costantemente vicino agli interessi dei militari. La sua argomentazione si fonda sull’incapacità di completare la missione militare americana in Iraq, ciò che rende del tutto inescusabile la continuazione delle uccisioni e delle perdite di vite umane. Egli fa riferimento anche agli effetti avversi dell’occupazione impopolare e tutt’altro che irreprensibile dell’Iraq sulle più ampie finalità della lotta contro il terrorismo globale, come pure al fallimento degli sforzi americani per la ricostruzione del paese. La critica di Murtha è ampiamente condivisa, a questo punto, da una maggioranza del popolo americano, e aiuta a spiegare la declinante popolarità della presidenza Bush.
Il Vietnam, un precedente, ma diverso
Ma non c’è segno che questi sviluppi, anche di fronte a un crescendo ininterrotto di episodi di violenza e di perdite elevate, possano condurre, di per sé stessi, a una rapida fine della guerra irachena. Il presidente Bush continua a ripetere la sua decisione di «tenere ferma la barra del timone», e di fare tutto ciò che è necessario per prevalere in Iraq. Non ci si può, per il momento, aspettare che un Congresso controllato dai repubblicani, benché dia prova di una crescente riluttanza nei confronti della guerra, sia disposto a rompere con il Presidente, e a rifiutare l’assegnazione delle somme richieste o a raccomandare una strategia d’uscita che stabilisca un termine preciso alla guerra. A differenza che nel Vietnam, che tende ad apparire sempre di più come un precedente dell’Iraq, le poste strategiche in gioco sono, in questo caso, molto alte. Lo sforzo di far credere che l’esito della guerra nel Vietnam fosse strategicamente importante a causa della «cascata dei pezzi del domino» che avrebbe potuto derivarne in tutta la regione non è stato mai convincente, e il solo argomento pesante a favore della tesi che le forze americane dovessero restarci a tutti i costi era rappresentato dalla presunta prospettiva del «bagno di sangue» che avrebbe fatto seguito alla loro partenza: uno scenario da incubo che non si sarebbe mai materializzato. Ma in Iraq ci sono poste strategiche di grande importanza: il petrolio, la non-proliferazione delle armi nucleari, gli effetti sulla Turchia e sull’Iran, il contenimento dell’Islam radicale, la lotta contro il terrorismo, la sicurezza di Israele, la politica di sicurezza per tutta la regione. E così il «puzzle» a cui ci troviamo ora di fronte è quello di trovare il modo di porre termine alla guerra irachena senza compromettere ulteriormente e in modo troppo grave ciascuna di queste preoccupazioni di ordine strategico.
La «corrente principale» va al disastro
Le soluzioni che vengono proposte nell’ambito del mainstream politico americano non sono convincenti: aspettare finché i militari iracheni siano in condizione di riportare la stabilità nel paese, ciò che somiglia molto ad aspettare l’arrivo di Godot; trasferire la funzione di garantire la sicurezza in altri paesi alla Nato, così come si era fatto in occasione della guerra del Kossovo, ciò che ridurrebbe il ruolo degli Stati Uniti solo per una minima percentuale del fardello attuale; ridurre la presenza militare americana, ma continuare a sostenere la missione. Queste presunte «soluzioni» non sono che ricette mascherate per prolungare la futilità della guerra, e costituiscono perciò altrettanti inviti al disastro finale. Sarebbe bene ricordare che, ancora per parecchio tempo (per parecchi anni) dopo che la dirigenza americana si era resa conto del fatto che la guerra vietnamita era perduta, le morti e le uccisioni continuarono ininterrottamente, perché il governo americano si ostinava a sostenere di poter trovare la vittoria con questa o quella manovra politica dopo aver riconosciuto privatamente la propria incapacità di pacificare la regione con l’occupazione militare della medesima. Come sappiamo, quando la ritirata ebbe finalmente luogo nel 1975, fu un evento umiliante, simbolicamente riassunto dagli elicotteri che portavano via i vietnamiti che avevano collaborato con l’occupazione sollevandoli in volo dal tetto dell’ambasciata americana a Saigon. Non c’è modo di trasformare la sconfitta militare nella fase di occupazione della guerra irachena in una vittoria di natura politica. Non c’è alcun modo di ottenere questo risultato, e quanto prima l’illusione di poter estrarre magicamente il coniglio dal cappello sarà riconosciuta per quello che è, tanto migliori saranno le prospettive di poter porre realmente termine alla guerra irachena prima che venga meno ogni spazio per l’azione diplomatica del governo. Già da parecchio tempo,in Iraq, il governo americano ha scambiato la vittoria militare per una vittoria politica. Il famoso discorso tenuto da Bush sulla portaerei americana «Abraham Lincoln» il 1 maggio 2003, davanti alla bandiera sventolante dietro il podio da cui parlava con la scritta «MISSIONE COMPIUTA», è stata la versione estrema di questo errore di calcolo. Ancora una volta, come l’esperienza vietnamita avrebbe dovuto rendere evidente, quando ci si trova di fronte a un avversario animato da una coscienza nazionale, è difficile, se non impossibile, tradurre la vittoria riportata sul campo di battaglia in esiti politici favorevoli. L’occupazione sanguinosa dell’Iraq ha confermato questa lezione, drammatizzando i limiti della superiorità militare in guerre associate con l’occupazione di un territorio straniero, e specialmente di un paese che sia già stato previamente sottoposto a una qualche forma di dominio coloniale.
Quello che ci sembra giusto
Capire che cosa ha fatto cilecca nel passato ed è improbabile che possa avere successo nel presente è qualcosa che di per sé non basta. Senza un’alternativa positiva il gioco del biasimo, o della critica, non conduce da nessuna parte. A mio avviso una siffatta alternativa esiste, anche se contiene grandi rischi, e, come ogni altra linea politica che si possa proporre per il futuro in Iraq, è avvolta in una rete di incertezza. Non possiamo conoscere con una certa precisione i rischi inerenti a linee politiche alternative, ma possiamo fare quello che ci sembra giusto nelle circostanze date, e che ci sembra offrire le migliori prospettive di impedire che i cadaveri continuino ad accumularsi senza tregua. In un rispetto decisivo, Rumsfeld aveva ragione quando, un paio d’anni fa, scriveva in un memorandum interno del Pentagono che noi manchiamo di un «criterio di misura» («metric» nell’originale) per determinare se stiamo vincendo o perdendo la guerra contro il terrore in Iraq o nel mondo nel suo complesso. Un riconoscimento di questo genere dovrebbe suggerire una certa umiltà da tutte le parti, ma specialmente a coloro che, di fronte a dubbi di quella portata, continuano a procedere in una guerra che ha già prodotto risultati umani e politici così disastrosi. Sia che ci poniamo dal punto di vista del diritto, della morale o della politica, dovremmo tutti nutrire, per conto nostro, e incoraggiare negli altri, una forte presunzione contro la guerra come strumento della politica.
I passi che dobbiamo intraprendere
Vorrei proporre alcuni passi che, nel loro insieme, costituiscono un piano, o almeno un approccio, che si muove in una direzione che lascia qualche speranza per il futuro:
* una dichiarazione esplicita («a clear statement») del governo americano che esso intende ritirarsi completamente dall’Iraq e che rinuncia a qualsiasi progetto di mantenere basi permanenti in quel paese;
* un calendario per il ritiro delle forze Usa che implichi la graduale e completa cancellazione della presenza americana (e di quella di tutta la coalizione) nel paese nel giro di un anno;
* l’adozione immediata di una postura militare difensiva; le forze americane in Iraq, da quel momento in poi, attaccheranno solo se saranno attaccate;
* un incoraggiamento rivolto, in pubblico e in privato, alle forze irachene a perseguire una diplomazia di compromesso e di riconciliazione in alternativa a una guerra civile prolungata;
* diversificare lo sforzo di ricostruzione economica e sociale in tutta la misura e l’estensione del possibile, inclusa la ricerca di una nuova funzione per le Nazioni Unite, che dovrebbero agire in assoluta indipendenza dall’occupazione americana;
* incoraggiare iniziative regionali che includano la Turchia, l’Iran, e anche un certo numero di paesi arabi, e che dovrebbero avere il compito di esplorare la possibilità di adottare misure di peace-keeping e di offrire altri contributi di carattere politico alla fase di transizione che farà seguito all’occupazione;
* affermare un impegno americano e britannico al mantenimento dell’unità dell’Iraq;
* esercitare una maggiore pressione per porre termine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi, e per fare in modo che si vada verso una soluzione del conflitto che riconosca i diritti legali del popolo palestinese e la necessità di una pace basata sull’eguaglianza e sul rispetto reciproco di entrambe le parti.
Aiutare la riconciliazione, mobilitare la pace
Da ultimo, questo approccio non ha alcuna possibilità di risultare efficace in assenza di una mobilitazione su vasta scala dell’opinione contro la guerra negli Stati Uniti, rafforzata dall’espressione di sentimenti analoghi in tutto il mondo, e da parte dei dirigenti regionali nel Medio Oriente. In assenza di un grande potenziamento dell’attivismo contro la guerra, essa continuerà a trascinarsi fino al momento in cui un processo terminale precipitoso sarà adottato in uno spirito di disperazione. Ciò che sto patrocinando è un ripensamento globale e comprensivo degli scopi e del comportamento americano nella regione, con una discreta possibilità che i risultati finiscano per essere più positivi di quanto si possa anticipare in termini strettamente realistici. La mia ragione di nutrire un certo ottimismo è l’impressione che, quando lo scudo protettivo americano sia stato inequivocabilmente rimosso, Curdi e Sciiti si troveranno sottoposti a una forte pressione a riconciliarsi con gli elementi sunniti in Iraq, a scanso di dover fronteggiare un’insorgenza permanente, e magari anche una guerra civile su vasta scala, da cui essi uscirebbero quasi certamente perdenti. Da parte sunnita, in pari modo, l’incentivo di evitare una lotta civile prolungata di questo genere darebbe luogo a una spinta considerevole a riconciliarsi coi loro avversari, dal momento che i Sunniti si troverebbero di fronte a nazionalismi dissidenti che non potrebbero più essere schiacciati con la facilità con cui lo erano stati nell’epoca di Saddam. Finché l’occupazione Usa persiste, gli elementi in Iraq che ne traggono beneficio non hanno alcun interesse a venire a compromesso in termini che possano essere accettabili ai Sunniti. È bensì vero che la composizione etnica dell’ Iraq è più complessa di quanto possa risultare da questo schema, e che le linee di faglia del conflitto non si possono tracciare esattamente facendo riferimento soltanto ai Curdi, agli Sciiti e ai Sunniti, ma queste divisioni hanno un fondamento geografico ben definito, e sono state ulteriormente approfondite e acutizzate dalla politica sbagliata dell’occupazione americana. La situazione in Iraq si è deteriorata al punto che non c’è più nessuna via d’uscita garantita che non sia attorniata da pericoli, ma almeno questi pericoli lasciano intravvedere la speranza che si possa imboccare una via completamente diversa. Restando sul sentiero della guerra irachena, ora così improvvisamente screditato, sappiamo tutti che i cadaveri continueranno ad ammucchiarsi uno sopra l’altro!
(traduzione di Renato Solmi)
N.d.r: Richard Falk, nato nel 1930, professore emerito di diritto internazionale nell’Università di Princeton, autore o curatore di una ventina di libri, collaboratore di “The Nation”, critico costante della politica di guerra del governo americano, è uno dei più autorevoli rappresentanti del pensiero “liberal” negli Stati Uniti. Questo articolo è uscito come Pressinfo 230 sulla rete elettronica della TFF (Transnational Foundation for Peace and Future Research), diretta da Jan Oberg, che è uno degli organi più importanti del movimento per la pace nel mondo (con sede a Lund in Svezia).