Fronte orientale, bombe Usa sul Pakistan

Qualche giorno prima che George Bush decidesse di scucire altri 10,6 miliardi di dollari per l’Afghanistan, i suoi soldati sulla frontiera orientale della guerra avevano appena commesso l’ennesimo svarione militare, foriero dell’ennesimo contrasto diplomatico tra Islamabad e Washington. Uno dei tanti bombardamenti oltre frontiera, che dalle basi afgane cercano di stanare quel che resta di Al Qaeda, ha ucciso per errore un soldato pachistano e ne ha feriti un paio nella valle di Shawal, in Waziristan. E’ la prima volta e la cosa è stata mal digerita in un paese dove le incursioni americane hanno già fatto decine di vittime, molto spesso sbagliando obiettivo: in ottobre il bombardamento di una madrasa ha ucciso quasi una ventina di studenti. Barbuti, forse, ma senza kalashnikov.
Il fatto è che sul fronte orientale, lungo i 2.400 chilometri della «porosa frontiera» che ancora si rifà ai confini tratteggiati da Sir Mortimer Durand nel 1893, si combatte un altro conflitto da quello che si guerreggia nelle pianure di Kandahar e dell’Helmand. Benché lontano dai riflettori, è il figlio legittimo dei bombardamenti di Tora Bora. E’ cosa degli americani, che tengono d’occhio le basi pakistane di talebani, sodali del mullah Omar e quel che resta di Al Qaeda.
A differenza che nella piana, dove la guerra finisce in autunno e ricomincia in primavera, qui le cose vanno avanti con continuità. Lo sfondo sono le montagne tra Pakistan e Afghanistan, il cui passaggio più noto è il passo di Kyber. Ma di valichi ce ne sono diversi, tanto che Islamabad, suscitando reazioni nelle organizzazioni umanitarie, ha pensato di minare la frontiera per contrastarne la porosità. Com’è stato però ampiamente documentato, gran parte del traffico di uomini e armi passa alla luce del sole più a Sud, tra il Belucistan pachistano e il meridione dell’Afghanistan. Con qualche spicciolo, i doganieri girano le spalle mentre sui due lati della frontiera, nei mercati di Chaman e Spin Boldak, si fanno gli affari che alimentano i talebani di denaro fresco e vettovagliamenti per le retrovie o il fronte. I due bazar sono controllati da clan tribali che sono in ottimi rapporti con i taleb.
Chiavi di lettura che aiutano a capire come la guerra afgana sia davvero molto più complicata di come i bollettini della Nato cerchino di rappresentarla. Se per paradosso bastasse davvero bombardare di più, facendo tabula rasa di case, uomini e animali, la guerra sarebbe vinta in due settimane. Ma il problema sta anche là, oltre la frontiera. Sul secondo fronte dove la Nato non mette becco e che compete agli americani.
L’indice è puntato sul Waziristan, una delle sette «agenzie» delle Federally Administered Tribal Area (Fata), la zona più povera e negletta del Pakistan, che gode di una giurisdizione speciale e di una discreta autonomia. I talebani hanno stretto nelle Fata un patto con popolazioni che appartengono tutte alla stessa etnia, i pashtun, e sono questi legami, uniti al mal sopportato giogo di Islamabad, a render loro possibile organizzare oltre confine basi e retrovie sicure. Le cose si sono complicate quando, dopo che nel 2004 Musharraf ha tentato, su pressione americana, di fare la faccia dura, Islamabad è venuta a più miti consigli. Visto che le Fata si trovano in una delle due province amministrate da partiti islamisti, che il pugno di ferro ha reso poco costando molto (in termini di perdite) e che il prossimo ottobre si va a votare, si è cominciato a negoziare. Nel 2004 col Sud Waziristan, nel 2006 col Nord. Si trattava anche nell’agenzia di Bajaur ma poi il bombardamento di ottobre ha fermato le cose. Se dunque c’è un problema militare (i santuari) c’è anche un grosso problema politico.
Per evitare troppi guai in casa, il Pakistan tratta a tutto campo (amnistia, fuoriuscita degli «stranieri», tregua) mentre gli americani bombardano, spesso anche con l’aiuto proprio dei servizi segreti pachistani che da anni giocano su un doppio tavolo e danno pure una mano ai taleb. Situazione esplosiva.
Visto dall’Italia l’Afghanistan sembra un paese piccolo che ha qualche guaio con il velo, i papaveri e una leadership debole e corrotta. Ma il gioco è più complicato. Dire che il Pakistan non fa abbastanza è riduttivo. E così pensare che il problema sia avere più soldati. Su quel paese giocano in tanti. La riedizione moderna del «grande gioco», non interessa solo Tehran e Islamabad, Washington e Bruxelles. Nuova Delhi, ad esempio, sta investendo quasi un miliardo nella ricostruzione, per non parlare dei paesi dell’Asia centrale ex sovietica. Se la conferenza internazionale si farà mai, dovrà essere molto affollata.

* Lettera22