La sede del Jamiat-e islami, il partito islamista più antico dell’Afghanistan, è in pieno centro. Uffici grandi e lauti finanziamenti per l’organizzazione che fa capo a Buranuddin Rabbani, presidente dell’Afghanistan negli anni Novanta quando, crollato il regime filosovietico di Najibullah, i mujaheddin presero a darsela di santa ragione. I resti di quell’epoca triste si vedono ancora nei palazzi sforacchiati lungo la via del bazar. La sede di Hawca invece è nella periferia Sud, una zona antica di Kabul dove le fogne cariche di liquami e sacchetti di plastica irrigano i campi rubati a una città che è ormai arrivata a 4 milioni di abitanti. Ma se a passare davanti alla sede del Jamiat corre un brivido lungo la schiena, da Hawca ci si sente a casa.
Sono due modi di leggere quel che accade a Kabul: la politica sotto gli occhi di tutti, quella dei signori del parlamento, e quella semiclandestina della società civile. Di quei «semi», come li chiama un diplomatico occidentale, che faticano, più che a germinare, a crescere. Il paragone stride nella Kabul assediata dalla nostra evidente presenza, punteggiata da blindati ed elicotteri turchi per il passaggio delle consegne ad Ankara del comando Isaf-Nato. Presenza che non sembra aver molto tempo da dedicare a questi semi di democrazia, una parola che, come dice Ozala Ashraf, fondatrice di Hawca, è di «gran moda» in Afghanistan.
La democrazia è stata presa alla lettera anche da Rabbani che già il 12 marzo scorso aveva annunciato la nascita di una nuova formazione politica, il Jabhe-ye-Motahed-e-Melli, o Fronte unito nazionale (Unf). Qualche giorno fa a Kabul, con un nuovo annuncio, la lista si è allungata in questo nuovo fronte, riedizione di passate alleanze e tradimenti, che adesso fa le pulci a Karzai e che vorrebbe limitare il suo potere. La lista contempla, oltre a Rabbani, l’ex ministro del commercio Sayed Mustafa Kazimi, il portavoce della camera bassa Yunus Qanuni, l’ex braccio destro di Massud Mohammad Qasim, il ministro per l’Energia ed ex governatore di Herat Ismail Khan, l’ex ministro dell’era sovietica Sayed Mohammad Gulabzoy e il satrapo di Mazar-i Sharif Rashid Dostum. Ma c’è anche il corpulento Mostafa Zahir, nipote dell’ex re Zahir Shah e già diplomatico accreditato all’ambasciata afgana di Roma, e l’ex leader comunista Noor-ul-Haq Ulumi, adesso parlamentare. Si dicono delusi dal presidente Hamid Karzai che li avrebbe esclusi dal potere e tagliati fuori dai giochi e propongono la revisione della Costituzione, un piano di riconciliazione nazionale che prevede di negoziare coi talebani e l’elezione di sindaci e governatori, adesso nominati dall’alto. Un modo per (ri)affermare il potere territoriale dei signori della guerra dicono i maligni, un modo per far valere le regole della democrazia, dicono i testimoni della nuova formazione. Che, sebbene il parlamento abbia appena passato la legge che li assolve tutti, annovera tra questi gentiluomini, non solo i veterani della resistenza all’Urss, ma gli assidui militanti della pratica del crimine di guerra. Tra loro ce n’è di quelli che vararono, all’epoca della conquista di Kabul, alcuni dei più solidi decreti islamisti, come l’obbligo del burqa e il divieto per le donne di lavorare.
Lontano da questi stantii e antipatici ricordi del passato che aleggiano nel quartiere di Shar-e Naw, dove ha sede il Jamiat di Rabbani e molte delle ricche magioni di mafiosi locali, si respira un’altra aria. Un po’ perché la sede di Hawca è lontana dal centro caotico della capitale, un po’ perché ad accoglierci c’è una banda di ragazzetti tra i sette e i quattrodici anni che ieri hanno avuto il privilegio di ricevere dei mini diplomi alla presenza di una delegazione di stranieri. Ci accolgono festosi e canterini e inalberano cartelli dove si chiedono, non a torto, se la vita di un italiano (Mastrogiacomo) vale quanto quella di un afgano (Adjmal Nashkbandi), come lui giornalista e come lui sequestrato dai talebani. E si perché i ragazzetti hanno una pagellina con diverse materie, tra cui «diritti umani», e proprio non devono capire come va un mondo con due pesi e due misure. E com’è che la parte scomoda della bilancia tocca sempre agli afgani.
Hawca ha diverse sedi e non molti quattrini. La Caritas, con 15/20mila euro l’anno, tiene in piedi questo centro di Kabul dove coi ragazzi si parla di pace, risoluzione dei conflitti e diritti. E non vi immaginate che le maestre gli spieghino le regole della geopolitica. Gli insegnano che in questo paese si è afgani senza bisogno di sapere se si è hazara o pashtun e che, se ti viene da litigare per strada, forse c’è un altro mezzo che non i pugni. Orzala lavora coi ragazzi facendo doposcuola: «Con gli adulti è difficile parlare di certe cose, ma i ragazzi invece ti ascoltano senza preconcetti».