L’Occidente esporta democrazia. Lo si dice senza alcuna ironia. Almeno una faccia della sua storia è lì a dimostrarlo. Una volta sbollita la follia neo-con anche l’Impero, pur mantenendo verosimilmente comportamenti «imperiali», potrebbe far buon viso a cattiva politica salvando le forme. L’ordine e la stabilità, cioè gli obiettivi che stanno a cuore di qualsiasi grande potenza in via prioritaria, non si servono necessariamente con la guerra elevata a pratica corrente. I fondamentalisti passano e restano i valori che l’Occidente ha estratto dalle esperienze sue e di altre civiltà costruendo modelli che sono stati emulati e impiegati anche fuori dell’area di pertinenza originale. Si potrebbe spiegare così – con la fierezza e l’autocompiacimento – l’idea del parlamento francese di approvare in febbraio e ribadire in novembre una legge che prescrive a educatori e autori di libri di storia di esaltare il colonialismo dando il giusto rilievo al ruolo «positivo» di chi ha esportato la grandeur nei territori oltremare. La disposizione è così assurda che rischia di riconciliarci con la destra di casa nostra. Le deplorazioni levate in Francia da esponenti di tutte le correnti di pensiero sono ovvie, persino obbligate, ma al fondo superflue. E non per le banalità del «politicamente corretto». La legge si discredita da sola. Il colonialismo è stato dominio e violenza. Apertamente o tacitamente, ogni colonialismo ha coltivato il razzismo perché non avrebbe potuto giustificare altrimenti la differenza di status fra i colonizzatori bianchi e i colonizzati di colore. È impossibile far passare il discorso, o la retorica, sui diritti umani e al tempo stesso difendere una società gerarchizzata e totalitaria come quella creata dal colonialismo. Ci sono evidentemente motivi superiori dietro a un simile exploit. L’era della globalizzazione vede un’inquietante coincidenza fra il massimo dell’interazione e il massimo del divario. I detentori del potere si rendono conto che lo status quo è precario e insostenibile con i mezzi ordinari. Non si parla dei soliti poveri del Terzo mondo: i miliardi di persone che vivono con un dollaro al giorno. Ci sono mondi, nazioni, comunità sociali, culturali o religiose che non godono – neppure i loro dirigenti e le loro avanguardie – né di diritti né di protezione. Anche i loro simboli sono violati impunemente. Essi appartengono al campo della guerra. La politica (non si dice la pace) è riservata agli altri (o meglio a noi): una politica che si vorrebbe privare sempre più di razionalità, fatta non di diritti ma di imposizioni a senso unico. Discende da qui la rivalutazione del colonialismo.
Si sa che la cultura liberale non ha mai garantito parità di trattamento ai paesi illiberali. Da Kant a John Rawls, sono solamente i paesi «repubblicani» – che per il teorico della pace perpetua erano poi i paesi democratici, liberali o ben orientati (il linguaggio corrente direbbe «moderati») – a far parte di diritto della comunità internazionale. Nel mondo extra-europeo molti stati hanno oggettivamente regimi illiberali. C’è spazio per il fanatismo, rivendicazioni identitarie e spinte eversive. L’ultima difesa per loro è la sovranità, il prodotto meno controverso della decolonizzazione. Accreditando il colonialismo, i paesi già coloniali sprofondano in una condizione grigia. La loro vulnerabilità alle interferenze di chi è alla ricerca ossessiva di risorse economiche e strategiche per la propria «sicurezza» diventa assoluta.
Sul colonialismo sopravvivono del resto molti equivoci. Soprattutto in Italia la scuola, la stampa, ma anche la cultura dotta, non si sono mai veramente misurate con il colonialismo. L’Italia non ha conosciuto direttamente la decolonizzazione: le sue colonie sono state perse per cause belliche e a opera della diplomazia internazionale. Non c’è stato quel faccia a faccia fra colonizzatori e colonizzati che altrove, anche se oggi molti se ne sono dimenticati, ha dato origine nelle stesse metropoli a prese di coscienza di portata rivoluzionaria.
Fra il clima di connivenza con il colonialismo che si respirava nella Parigi descritta nei Mandarini da Simone de Beauvoir e il Manifesto dei 121 intellettuali contro la guerra d’Algeria trascorse solo una dozzina d’anni ma la svolta sembrava irreversibile. E invece nel 2005, anno in cui si è celebrato il cinquantesimo anniversario di Bandung, la conferenza che portò alla ribalta della politica mondiale i paesi afro-asiatici appena liberatisi dal colonialismo, si offende con un artificio revisionistico non tanto la verità quanto la storia. Paradossalmente, è come se il molto contestato Fukuyama avesse visto giusto. Non ha senso, infatti, a meno di non constatare la fine della storia, sconfessare uno dei punti più alti di quella occidentale: l’anticolonialismo. Proprio nella Francia della famigerata legge 23 febbraio 2005, all’Assemblea nazionale si è ritenuto di votare nel non lontano 1999, sia pure con una maggioranza socialista, una legge per riconoscere che in Algeria fra il `54 e il `62 si è combattuta una «guerra» (fino allora negli atti pubblici si parlava di «avvenimenti») e il sindaco di Parigi, di nuovo un socialista, ha fatto cementare su un ponte sulla Senna una targa che ricorda gli algerini gettati nel fiume dalla polizia durante le manifestazioni a favore del Fln nell’ottobre 1961. Perversamente, la legge sul colonialismo ha l’ardire di sottolineare che i meriti della politica coloniale della Francia sono stati particolarmente esimi nel Nord Africa, e dunque in Algeria.
Il colonialismo, è vero, ha educato le élites dei paesi arabi, asiatici e africani in funzione del dominio occidentale modificando per sempre la vicenda umana e istituzionale di interi continenti. Una simile acculturazione non è stata senza prezzi, anche prescindendo qui dagli orrori da «libro nero» che l’hanno accompagnata. La tesi che liquidava lo Stato postcoloniale con le categorie del neocolonialismo e della dipendenza si è rivelata semplicistica e sbagliata. La questione dello sviluppo non si esaurisce nelle relazioni con i circuiti finanziari e commerciali su scala mondiale. Lo Stato africano contemporaneo, pur integrato com’è nell’economia capitalista, è la costruzione di gruppi che controllano le opportunità prodotte da meccanismi diversi nel cuore stesso delle società tradizionali con un grande risalto per l’informalità. Benché il colonialismo e, per ragioni opposte e speculari, la decolonizzazione abbiano fatto di tutto per polarizzare l’attenzione sui tratti venuti dall’esterno, se appena si scende sotto la soglia dell’ufficialità la politica africana moderna può essere spiegata solo in riferimento alle tradizioni. La cultura originale subisce mutazioni e contraffazioni per effetto della modernizzazione, ma riaffiora di continuo in fenomeni come la sovranità diffusa propria degli Stati «deboli», il senso di appartenenza a livello di clan, classi d’età o genere e, con contraccolpi che possono essere anche dirompenti, i revivalismi etnici. Se le istituzioni che comunicano con l’esterno rappresentano il «regno dell’importato» – ed è questa la dimensione più visibile – il comportamento dell’individuo nella società e nella vasta area dell’informale rappresenta piuttosto il «regno dell’indigeno».
Una realtà così complessa fa fatica ad adattarsi all’omologazione neo-imperiale. Non è con un di più di colonizzazione – la fantomatica ricolonizzazione evocata nei talk-show – che si può porre rimedio alle emergenze della periferia ex-coloniale. La crisi, anch’essa oggettiva, risale al modo in cui si è svolto il processo di transizione alla modernità. La conseguenza più persistente della colonizzazione è stata la contaminazione di ideologie e traiettorie fino alla dissociazione di storie che tutte, poco importa il grado di sviluppo o consapevolezza, avevano propri codici e proprie dinamiche. Non è solo una questione di identità minacciate come è più facile riconoscere anche da parte dei neo-reazionari alla Alain Finkielkraut. Stando a quanto trasmesso attraverso il colonialismo, il mondo politico e intellettuale che ha ascendenze coloniali è turbato dal dubbio che la propria storia sia inutile per le scadenze di progresso e democrazia. Ci sono problemi di continuità e di trasparenza nei confronti dei gruppi dirigenti, legittimi o illegittimi, e specialmente dei ceti sociali meno toccati dagli apporti occidentalizzanti. Non per niente si deve alla minore rottura con il passato se i protettorati, che hanno preservato in parte le istituzioni precoloniali, nella fattispecie Marocco e Tunisia, sono approdati alla forma di stato della tradizione occidentale con minori lacerazioni rispetto, per esempio, ai tormenti dell’Algeria, parte integrante della Francia e acquisita, in linea di principio, alla pienezza di diritto.
La decolonizzazione è uno dei grandi eventi del ‘900. È d’accordo anche Hobsbawm, secondo il quale comunque l’indipendenza delle colonie non ha scalfito l’egemonia del capitalismo e dell’Europa-Occidente. Forse lo storico del «secolo breve» sottovaluta le trasformazioni delle due parti a seguito della decolonizzazione e, prima, del colonialismo. Certo è che la tecnologia, i capitali, la disponibilità della forza-lavoro non erano alla portata dei paesi di nuova indipendenza. Si doveva aspettare la globalizzazione per negare in toto il significato dell’emancipazione dei popoli «altri» con una regressione al pre-Hobson più ancora che al pre-Marx. Un negazionismo su cui nessun giudice, reale o virtuale, sarà chiamato a vigilare o intervenire. I presidenti Usa ripetono che gli standard di vita del popolo americano non sono negoziabili. La notizia è che in tema di privilegi anche l’Europa vuole fare la sua parte.