Mentre l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) rimprovera l’Italia per non aver avviato riforme più rapide e profonde, «pur avendo compiuto importanti progressi nella liberalizzazione e nella deregulation dell’economia», la Francia annuncia che non privatizzerà l’energia. Lo stesso la Germania. A fronte della pretesa della Commissione europea di privatizzare tutto e subito, i due Grandi hanno risposto, al vertice di Stoccolma di sabato scorso: «Non tutto e non subito». Il governo del socialista Lionel Jospin ha giocato tutte le sue carte per affermare che sui mercati del gas e dell’elettricità devono valere le ragioni e le opzioni dello Stato, prima che gli interessi delle compagnie private. Forse Jospin ha pensato a quanto sta accadendo in California, dove le centrali privatizzate rischiano la chiusura per assenza di investimenti, scarsezza di scorte, riduzione ai minimi termini del personale addetto alla manutenzione della rete e degli impianti. Con grave rischio e danno irreparabile per la new economy che, dalle propaggini della Silicon Valley, da San Diego a Los Angeles, fino all’industria dell’intrattenimento di Hollywood, e poi su su lungo la faglia di Sant’Andrea, fino a San Francisco e a Berkeley, dove è nata internet, rischia di rimanere soffocata dall’inefficenza di una distribuzione energetica che nessuno è più in grado di garantire, né in termini di potenza prodotta, né in termini di continuità di erogazione. E, come si sa, i computer possono fare a meno di tutto, ma non di una fonte energetica che li alimenti. A Parigi il governo francese ha dichiarato che si rifiutava «di liberalizzare il mercato dell’elettricità e del gas, non tanto sul piano ideologico, ma per il fatto che questa apertura deve essere controllata e deve preservare le missioni proprie del settore pubblico, che sono quelle della sicurezza, della continuità territoriale e dell’uguaglianza di accesso per tutti al mercato dell’energia». Un minuto dopo i socialdemocratici tedeschi di Schroeder non hanno visto l’ora di mettere le vele al seguito del vento francese. E così, giocando di sponda, i due paesi più forti dell’Unione sono riusciti a imporre la loro volontà agli altri tredici partner europei, impedendo che venisse stabilita una scadenza fissa (inizialmente prevista per il 2005) per la completa apertura dei mercati e per quella che viene definita una piena e compiuta deregulation energetica. La Commissione guidata da Romano Prodi ha dovuto fare buon viso a cattiva sorte e, pur confermando che entro quella data i mercati dovranno essere completamente liberalizzati senza vincoli per la concorrenza, si è portata a casa un solo risultato su sei punti all’ordine del giorno, affrontati dal Consiglio europeo riunito a Stoccolma: quello della liberalizzazione dei mercati finanziari. Giusto in tempo per consentire al Nasdaq (la società di Borsa americana che gestisce le contrattazioni sui titoli tecnologici a Wall Street) di acquisire il controllo di maggioranza dell’Easdaq, l’omologa società di gestione delle contrattazioni tecnologiche in Europa, che infatti si chiamerà da ora in poi Nasdaq Europe. Per il resto Prodi e i suoi commissari tornano a casa con le pive nel sacco, frenati da un profondo disaccordo sui processi di liberalizzazione, sulle riforme di struttura, sulla “modernizzazione” dello stato sociale. Dopo il flop di Lisbona, un anno fa, i “cedimenti strutturali” di un’Europa che non riesce a diventare comunità piena – non tenendo conto dei cittadini ma solo degli affari – diventano la cifra abituale degli incontri dei Quindici. E altri quindici mancano ancora all’appello dell’Europa allargata.
Gemma Contin