Flessicurezza e libro verde sul lavoro Ue. Se cambia il principio del diritto al lavoro

Torna finalmente alla ribalta in forma ufficiale il dibattito sul Libro verde sul lavoro. Tre esperti e il Commissario Spidla si sono confrontati lo scorso 21 marzo in un’audizione della commissione occupazione del Parlamento europeo. Illuminanti i contributi dei due professori universitari invitati. Si sono dimostrati molto piú vicini e sensibili alle esigenze sociali della contrattazione collettiva e del ruolo dei sindacati di quanto non ci si potesse aspettare dalla loro posizione: il primo ordinario al King’s College di Oxford, il secondo del Dipartimento delle politiche sociali dell’Università di Tilburgh.
Il prof. Bercusson, inglese, ha sottolineato come il libro verde tenti impropriamente di spostare la contraddizione del rapporto di lavoro da quella naturale tra il datore ed il lavoratore a un conflitto tra lavoratori stessi: tra precari ed occupati. Un cambiamento inaccettabile e radicale della natura del diritto del lavoro che invece ha sempre storicamente cercato di colmare lo squilibrio di potere che esiste nel rapporto di lavoro tra padrone e salariato. Il diritto non puó limitarsi alla sola sfera individuale, i contratti collettivi sono l’altro strumento in tutti i paesi dell’Ue per colmare questo divario di potere. Il diritto del lavoro secondo il prof Bercusson è parte integrante di quello che in gergo è chiamato “acquis” comunitario, indisponibile cioè a qualsiasi compressione o limitazione, come la Carta dei diritti fondamentali. Non possono esistere segmenti di lavoratori che non godano delle stesse protezioni degli altri: parità quindi di diritti tra lavoratori dipendenti ed autonomi o ad interim. Ridurre o semplificare il diritto del lavoro andrebbe solo a vantaggio dei padroni.
Sulla stessa lunghezza d’onda il collega olandese Wilthagen che interpreta la “flessicurezza” come una definizione comune del rischio da gestire congiuntamente tra le parti e quindi tramite la negoziazione collettiva in cui i rappresentanti dei lavoratori devono avere il proprio ruolo riconosciuto. I capisaldi del diritto del lavoro non vanno cambiati, se processi di transizione vanno gestiti non possono che riguardare la sicurezza e non esiste un unico modello europeo: esistono strade diverse a seconda del tasso di occupazione, del livello di spesa sociale e previdenziale esistente e devono essere molto concrete, non teoriche. L’unico parziale supporto alla filosofia di precarietà del Libro verde lo ha offerto il responsabile dell’Agenzia europea di Dublino per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, Willi Buschak, che in modo critico ha evidenziato le necessità su cui si dovrebbe basare un approccio alla “flessicurezza”.
I dati dell’Agenzia rilevano che nell’Ue la media dei contratti a tempo determinato è del 14.5%, con un divario che va dall’Irlanda (3.7%) o Danimarca (9%) per arrivare alla Germania (14.7%) e Spagna (33.2%) e che il 56% dei lavoratori sono convinti di non poter contare in alcun modo nell’organizzazione del tempo e ella qualità del lavoro. Inoltre la flessicurezza tanto invocata necessiterebbe di un buon livello di formazione: i dati dicono che solo il 13% della forza lavoro ha seguito corsi di aggiornamento e tale percentuale è in calo nell’Ue le opportunità sono nulle per chi è ha un contratto a tempo determinato. Inoltre il Libro verde presupporrebbe che gli Stati membri promuovano politiche attive del lavoro, e per questo ci vogliono tempo e soldi, sistemi previdenziali funzionanti, infrastrutture sociali efficienti per non escludere nessuno dal mercato del lavoro, ed estrema attenzione ai redditi individuali e familiari per non cadere nella trappola di rendere piú povero proprio chi lavora. Infine c’è un problema di fiducia da costruire con gli interessati sui passaggi di carriera e verso la sicurezza salariale che va assicurata: tutti presupposti che, letti in chiave ottimistica, portano l’agenzia europea, sulla base dell’indagine svolta, a ritenere che la flessicurezza sia una possibilità.
Di fronte ai primi interventi critici e dubbiosi di molti parlamentari, cui non sfuggiva che in definitiva i maggiori oneri e rischi sarebbero stati scaricati sulla spesa sociale dei propri paesi con tensioni e sicuri impoverimenti sociali, il Commissario ha tentato di difendere il Libro verde. Ha ammesso che la frammentazione e tipologia dei contratti anomali sono l’ostacolo maggiore e che tale percentuale in pochi anni è già cresciuta dal 36% ad oltre il 40%, in realtà al 48% se calcolata sulla forza lavoro occupata. Si è appellato ai presunti progressi della strategia di Lisbona sull’incremento di manodopera femminile anche se lontana dagli obiettivi prefissati. Due sue affermazioni sono state invece clamorose. La prima, ritenendo che le delocalizzazioni non tocchino piú del 2% delle imprese ha voluto assicurare che le conseguenze sono trascurabili.
Nella seconda ha ammesso di aver esplicitamente omesso ogni collegamento tra Libro verde e diritto collettivo del lavoro perchè troppo differente nei paesi Ue e quindi sarebbe stato troppo complicato tenerne conto. Del resto obiettivo del libro verde non è armonizzare ma convincere Stati membri e cittadini che il diritti del lavoro va visto come diritto solo individuale. Si apre ora la strada ad emendamenti e ad una risoluzione parlamentare che dica la sua e si prepari soprattutto a dar battaglia sulla prossima comunicazione piú operativa della Commissione sulla flessicurezza attesa per metà giugno.