1. Il fisco secondo Berlusconi (Prologo filosofico)
“Se lo Stato ti chiede più di un terzo di quanto guadagni, c’è una sopraffazione nei tuoi confronti, e allora ti ingegni per trovare sistemi elusivi e addirittura evasivi ma in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità”. In questa frase, pronunciata da Berlusconi – con audace mossa situazionistica – proprio alla festa della Guardia di Finanza (11 novembre 2004), è contenuta tutta intera l’ideologia berlusconiana del fisco. Questa ideologia, dispiegata con grande potenza mediatica, e accettata di fatto anche da buona parte dell’opposizione di centro-sinistra, è facile a sintetizzarsi: il fisco è la manifestazione di uno Stato predone e onnipotente, e rappresenta un attacco alla libertà della proprietà ed al diritto di godere i frutti del proprio lavoro. Rispetto a questo attacco, il “cittadino” ha diritto di difendersi come può: cioè non pagando le tasse.
Perfettamente in linea con il Berlusconi-pensiero, il documento governativo – penosamente condito di affermazioni “filosofiche” – che accompagna la “riforma” fiscale (lo si può leggere sulla Gazzetta Ufficiale n. 91 del 18 aprile 2003): “Nella nostra visione, il limite naturale, fondamentale e costituzionale dell’imposizione fiscale è rappresentato dal lavoro e dalla proprietà privata, basi fondamentali della libertà della persona e della ricchezza della nazione”. E ancora: “Se il presupposto del prelievo non è quanto serve allo stato, ma quanto può dare il privato; se non si ha una visione autoritaria dello stato, che può imporre quanto vuole; se insomma si accetta il principio del limite dell’imposizione, costituito dal rispetto del lavoro, della proprietà, e dei frutti che ne derivano, è evidente che la misura della giusta imposta dipende unicamente dal consenso dei cittadini. Da quanto i cittadini sentono giusto di dover pagare allo stato a titolo di imposta sui frutti del loro lavoro e della loro proprietà”. Si tratta, è il caso di ammetterlo, di affermazioni quasi commoventi: era almeno dai tempi di Kant che l’Uomo, la libera volontà umana, la coscienza dell’individuo non venivano posti così al centro del discorso politico.
Il problema, però, è che in realtà quello di cui qui si parla non è l’Uomo astrattamente inteso. No: l’individuo al cui “intimo sentimento di moralità”, al cui “senso della giustizia” Berlusconi e i suoi degni collaboratori fanno appello è una categoria di persone molto più ristretta. È l’Evasore. Per essere più precisi: l’evasore potenziale, colui che può evadere il fisco. Cioè il libero professionista, l’imprenditore (persona fisica) e ovviamente l’impresa stessa (persona giuridica). Purtroppo, infatti, la commovente esaltazione della volontà e della libera scelta come cardini del sistema fiscale (che si è tradotta in concreto, nei provvedimenti del governo Berlusconi, in impunità legalizzata per gli evasori fiscali), non vale per i lavoratori dipendenti: i quali possono invece ammirare, ad ogni 27 del mese, direttamente sul cedolino l’entità di quanto della loro busta paga finisce in tasse.
È un gran peccato. Ma è soprattutto un peccato che pochi, tra gli stessi lavoratori dipendenti, sappiano di cosa sono capaci la “volontà libera” e l’“intimo sentimento di moralità” dell’Evasore, se li si lascia fare. A questo riguardo sarà quindi utile citare qualche dato.
2. Il fisco “distratto”
Secondo cifre fornite dall’Agenzia delle Entrate, in relazione all’imponibile Irap evaso nel 2002, l’evasione media ammonta al 46% di quanto viene dichiarato (ogni 100 euro dichiarati, ce ne sono altri 46 che vengono evasi). Dal punto di vista dei settori, all’ultimo posto abbiamo l’industria (8%), preceduta dalle costruzioni (24%), dal commercio (77%), dai servizi alle imprese (89%) e infine dai servizi alle famiglie (112%). Quanto alle zone geografiche, evade proporzionalmente di meno il nord ovest (31%), un po’ di più il nord est (34%); decisamente più performante il centro (47%), e soprattutto il sud (che può “vantare”, grazie all’economia sommersa che è il vanto di Berlusconi, un 99,5%: il reddito evaso in questo caso praticamente equivale a quello dichiarato). Anche se va aggiunto che in cifre assolute (e quindi in percentuale sul totale dell’imponibile evaso) il nord ovest riduce di molto il distacco rispetto al sud (26,5% del totale contro 34,5%). Ancora: secondo stime del 2002 del Fondo Monetario Internazionale, il peso dell’economia sommersa in Italia è del 27%, ossia il doppio del valore medio dei Paesi appartenenti all’OCSE.
Il comandante generale della Guardia di Finanza, nella conferenza stampa di fine 2004, ha dichiarato che nei primi 11 mesi del 2004 la Guardia di Finanza ha effettuato 65.160 controlli, scoprendo evasioni nel 10,5% dei casi esaminati, per 8,9 miliardi di euro totali. Considerando che il totale delle imprese e dei lavoratori autonomi ammonta a circa 3 milioni di unità, se dovessimo considerare un’evasione proporzionale a quella individuata nei casi in cui sono stati effettuati i controlli, avremmo una cifra spaventosa: 410 miliardi di euro. Per parte nostra, siccome siamo degli inguaribili ottimisti, ci accontenteremo della stima fornita dal Ministero dell’Economia: le tasse evase ammontano a circa 210 miliardi di euro annui. Tanto per avere un’idea delle dimensioni, si tratta di una cifra che è più di 4 volte l’ammontare della finanziaria “lacrime e sangue” del governo Amato ai tempi della svalutazione della lira del 1992. Ogni anno l’“intimo sentimento di moralità” degli imprenditori e professionisti italiani evade il fisco in questa misura.
Berlusconi, dacché è al governo, ha provveduto a manifestare il suo ossequio nei confronti di questo “intimo sentimento di moralità” in diversi modi. Il più noto è rappresentato da due condoni tombali consecutivi (tali cioè da sanare una volta per tutte l’evasione pregressa e da bloccare gli accertamenti fiscali in corso). Per avere un’idea degli effetti concreti del condono (e a riprova dell’irrilevanza del conflitto di interessi…), basterà citare il caso della Fininvest: che ha versato al fisco 35 milioni di euro per avere il condono su oltre 190 milioni di evasione. Né va dimenticata la cancellazione delle tasse di successione anche per i grandi patrimoni, o la sanatoria per il rientro dei capitali esportati illegalmente (per lo più evasione fiscale mascherata) dietro il pagamento di un obolo ridicolo. E, da ultimo in ordine di tempo, sarà il caso di ricordare la vendita del 16,8% del capitale di Mediaset da parte dello stesso Berlusconi: questa vendita, avvenuta nell’aprile 2005, ha fruttato a Berlusconi e famiglia un guadagno di 1,9 miliardi di euro completamente esentasse – grazie ad una provvidenziale norma, da poco approvata, che detassava completamente le plusvalenze ricavate dalla vendita di investimenti azionari immobilizzati. Non dubitiamo che “l’intimo sentimento di moralità” di Berlusconi ne abbia tratto grande soddisfazione…
Questa, ovviamente, è la strada maestra: una bella legge grazie alla quale non si devono pagare certe tasse. In assenza di questa, c’è sempre l’evasione. Che ben raramente viene colpita: anche perché, nei rari casi in cui viene scoperta, lo Stato finisce per incassare una quota minima di quanto dovuto. Tra gli ultimi dati resi pubblici dal Secit, ossia il servizio degli ispettori del Ministero dell’Economia e Finanze (i cui rapporti negli ultimi anni non sono più stati pubblicati), ci sono alcune cifre decisamente istruttive: su 1.031 miliardi di vecchie lire di evasione (accertata) da parte di 600 grandi imprese nel 1998, tre anni dopo il fisco ne aveva incassati appena 72!
Tra leggi su misura e condoni tombali, inefficacia e lentezza dell’attività di recupero, pubblici elogi del “sentimento di moralità” degli evasori e politiche conseguenti, è davvero difficile stupirsi del fatto che si sia ormai in presenza di una vera e propria crisi fiscale dello Stato. Una crisi tale da “costringere” il governo a (s)vendere il patrimonio immobiliare pubblico e addirittura a dichiarare alienabile una parte cospicua degli stessi beni culturali – il tutto per mettere qualche toppa al debito pubblico (con il risultato, nel primo caso, di aggravarlo in prospettiva).
Ma non basta: infatti, come è stato giustamente scritto su queste pagine, con la cosiddetta “riforma fiscale” varata a fine 2004 “la rinuncia a perseguire l’evasione fiscale di impresa e lavoro autonomo è oramai divenuta principio dell’ordinamento tributario italiano” (v. il n. 106). In effetti, oltre alla riduzione dell’aliquota della tassazione sui redditi delle società, la “riforma” ha stabilito tra l’altro la graduale eliminazione dell’Irap e l’introduzione sistematica del “concordato triennale preventivo”.
Ovviamente, però, non è su questo che i telegiornali di regime hanno insistito, bensì sulla riduzione delle aliquote fiscali per le famiglie. In verità, la “riduzione” fiscale promessa dal governo Berlusconi ha rappresentato la neutralizzazione per legge del principio costituzionale della progressività delle imposte. Vale infatti la pena di ricordare che secondo la Costituzione della Repubblica Italiana i cittadini debbono pagare le tasse “in ragione della loro capacità contributiva” e con un sistema tributario “informato a criteri di progressività” (art. 53 della Costituzione). La riforma fiscale colpisce questo principio in due modi:
– Con la riduzione–obiettivo a sole due aliquote fiscali la progressività delle imposte è negata nei fatti. E già con la riforma attuale delle aliquote è fortemente attenuata. Lo si capisce già dalla distribuzione degli sgravi fiscali, come evidenziata da un saggio di Baldini e Bosi: “al 50% più povero dei contribuenti va il 12,5% dello sgravio, mentre il 16,5% dei contribuenti più ricchi gode del 60% del totale”.
– Non meno importante è però l’introduzione immediata di nuove imposte indirette nella misura di 2,4 miliardi di euro, oltreché di ulteriori imposte indirette nella forma di un aumento delle tariffe dei servizi pubblici (per i dati di dettaglio v. n. 106).
La sostituzione di fatto delle imposte indirette alle imposte dirette rappresenta uno dei più importanti fronti dell’attuale attacco alla progressività dell’imposizione fiscale. Ma è bene precisare che da questo punto di vista in Italia le imposte sono già regressive: già nel 2001 la pressione fiscale incideva per il 38,63% del reddito lordo del 10% più povero dei contribuenti, mentre pesava solo per il 31,44% sul 10% più ricco. Questo è dovuto precisamente alle imposte indirette, che incidono in misura proporzionalmente assai superiore sul reddito dei poveri che su quello dei ricchi.
C’è infine un’ulteriore misura, che non ha a che fare direttamente con la progressività delle imposte, ma che ha un carattere di classe non meno marcato: si tratta del tentativo di coprire il buco creato nel bilancio dello Stato dagli sgravi fiscali per ricchi rappresentati dalla riduzione delle aliquote attraverso la riduzione della spesa pubblica (si intende questo quando si parla di “crescita della spesa pubblica al di sotto del tasso di inflazione programmata”). In questo modo i salariati, già penalizzati perché pagano le tasse, perché le pagano in misura proporzionalmente superiore alla loro capacità contributiva, e perché vedono aumentare le tasse indirette sui beni e le tariffe sui servizi pubblici, vengono colpiti una volta di più: attraverso la riduzione dei servizi sociali, che dovranno quindi comprare “sul mercato”. Che cosa questo significhi lo capisce bene ogni lavoratore che abbia dovuto pagarsi una visita medica o dentistica in uno studio privato. In questo caso, egli avrà avuto anche l’occasione di sperimentare di persona come funzioni realmente il “fisco distratto” nel nostro Paese: infatti nella metà dei casi, a fronte di onorari assai esosi, non ha ricevuto alcuna ricevuta.
3. Evasione fiscale, lotta di classe e “Italia dei piccoli”
Quanto sopra impone di considerare il problema della fiscalità in termini ben diversi da una questione di carattere morale: la fiscalità è infatti una delle forme storicamente più efficaci assunte dalla lotta di classe nel nostro Paese, e come tale va considerata.
Di fatto, il principio costituzionale della progressività delle imposte in Italia è rovesciato. Nel nostro Paese – caso unico tra le nazioni a capitalismo avanzato – il gettito proviene infatti in misura non solo prevalente, ma addirittura quasi esclusiva dal lavoro dipendente. Mentre i padroni (ma anche le grandi corporazioni professionali e la grande maggioranza dei lavoratori autonomi) le tasse semplicemente non le pagano – o le pagano in proporzione ridicola rispetto al reddito effettivo. A questo riguardo il governo Berlusconi non ha fatto che portare alle estreme conseguenze le caratteristiche di fondo del sistema fiscale italiano.
I risultati di tutto questo sono ovvi tanto sul piano della funzionalità dello Stato (devastata dagli effetti della crisi fiscale dello Stato, assai più che dagli “sprechi”), quanto su quello dell’iniquità e delle sperequazioni sociali: il (non) funzionamento del meccanismo fiscale opera di fatto come un Robin Hood alla rovescia, che toglie ai poveri per dare ai ricchi. Meno ovvia è un’altra conseguenza del “fallimento” fiscale: ossia il fatto che, nel corso dei decenni, esso ha grandemente contribuito a rimescolare le carte all’interno della stessa borghesia italiana, riconfigurandone le gerarchie, e creando specifiche opportunità di sviluppo per alcune sue componenti a scapito di altre.
Tra gli effetti di lungo periodo dell’evasione fiscale (un tempo consentita, ora esplicitamente legalizzata e teorizzata), il principale è senz’altro rappresentato dalla struttura produttiva frammentata (quella che una volta veniva elogiata come “l’Italia dei piccoli” ed oggi finalmente si cominciare a chiamare “nanismo”): in effetti, l’evasione ha rappresentato uno dei principali fattori competitivi delle piccole imprese italiane.
Come è noto, nel corso degli ultimi decenni il peso delle piccole imprese sul totale delle aziende italiane (già superiore a quello di tutti gli altri Paesi capitalistici avanzati) è costantemente aumentato: in altri termini, il nanismo industriale italiano è cresciuto. Su questo fenomeno è fiorita una vastissima letteratura apologetica. Si è addirittura parlato dell’economia italiana come di un “calabrone” che avrebbe sfidato con successo le leggi economiche, infrangendo (caso unico al mondo) la legge per cui la crescita della dimensione delle imprese (in termini di capitali impiegati, di mezzi di produzione posti in opera e di lavoratori occupati) è un fattore determinante per il successo economico in una economia capitalistica avanzata; o, se si vuole, confutando la concezione marxista per cui la concentrazione e la centralizzazione dei capitali rappresentano fondamentali tendenze immanenti allo sviluppo del modo di produzione capitalistico (K. Marx, Il Capitale, libro III, cap. 13 e cap. 15).
Tutte sciocchezze, ovviamente. Il successo delle piccole imprese italiane era infatti imperniato su 3 fattori: le periodiche svalutazioni competitive della lira, il basso costo del lavoro (tra i più bassi dell’Europa dei 15), e – appunto – l’abnorme evasione fiscale, che per decenni ha rappresentato il più significativo “aiuto di Stato” a questa tipologia di imprese.
Che l’evasione fiscale e contributiva (grazie all’evasione in senso stretto ed al lavoro nero) abbia costituito nel corso degli anni uno dei maggiori (indebiti) vantaggi competitivi per le piccole e medie imprese è così poco un mistero, che alcuni autori ne parlano in premessa dei loro ragionamenti su piccole imprese e distretti industriali. Ecco ad esempio cosa scrivono Sebastiano Brusco e Sergio Paba: “per ragioni diverse, soprattutto nella legislazione civilistica e fiscale, le imprese minori sono state a lungo difese sia dalla destra che dalla sinistra. Sino al principio degli anni novanta, ancora in sostanziale concordia con l’opposizione, il governo ha consentito loro livelli molto alti di evasione fiscale, sia per averne il consenso, sia per compensarle della capacità di creare occupazione”. Del resto, persino Antonio Fazio, non proprio uno strenuo difensore dei diritti dei lavoratori, ha potuto parlare di “abnorme estensione del lavoro irregolare”. Ed è il meno che si possa dire, in presenza di dati come questi: una media italiana di lavoro irregolare pari al 14,5% delle unità lavorative totali nel 2000, che diventa il 22% nel Mezzogiorno (con punte del 29%, 25% e 24% in Calabria, Campania e Sicilia) ma che anche nella regione più “virtuosa” (il Piemonte) è comunque superiore al 10%; il che, tradotto in cifre assolute, fa oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori al nero secondo le elaborazioni condotte dalla Banca d’Italia su dati Istat. Ma secondo l’Eurispes nel 2003 le cose stanno ancora peggio: la percentuale sul totale dovrebbe oscillare addirittura tra il 30% e il 48% del totale, e le cifre assolute assommare a qualcosa tra i 7 e gli 11 milioni di lavoratori in nero; in tal caso l’economia sommersa (che sfugge del tutto al fisco) varrebbe non meno di 317 miliardi di euro (il 27% dell’intero prodotto interno lordo!).
Le cifre appena citate sono di grande aiuto per comporre il puzzle della crisi attuale dell’economia italiana. Le cose stanno in maniera molto semplice. Negli anni Ottanta e Novanta molte imprese sono sopravvissute, ed anzi hanno prosperato (sino alla metà degli anni Novanta e oltre), pur non essendo competitive. Lo hanno potuto fare grazie a profitti illegali: ossia a profitti che nascevano dalla violazione delle leggi fiscali (evasione) e dalle leggi che regolano la contribuzione previdenziale (economia sommersa). Qui ovviamente il discorso sulla fiscalità si lega ad un altro elemento cruciale del “vantaggio competitivo” delle piccole e medie imprese: il basso costo del lavoro. Entrambi gli elementi hanno cooperato a rendere profittevoli imprese che non avrebbero potuto esserlo in assenza di quei presupposti. Ed entrambi questi fattori sono stati periodicamente rafforzati, fintantoché è stato possibile, dalle “svalutazioni competitive”, che consentivano di ripristinare la concorrenzialità dei prodotti italiani sul piano del prezzo.
Di fatto, l’evasione fiscale ha consentito il proliferare di una forma tutta specifica e tutta italiana di rendita: tanto con riguardo alle libere professioni, quanto con riguardo alle piccole imprese. I profitti così ottenuti sono stati tesaurizzati (ossia dirottati verso i patrimoni personali e familiari degli imprenditori), e molto più di rado reinvestiti nelle imprese. Questo per due motivi: perché la contabilità parallela era parte integrante del meccanismo dell’evasione, e perché il permanere in dimensioni estremamente contenute d’impresa ed in nicchie anche assai ristrette di mercato (risultato necessario della mancanza di investimenti) era in fondo funzionale al mantenimento di quei margini di profitto illegali.
Tutto questo ha concorso a tre fenomeni estremamente negativi per l’economia italiana: indebolimento della grande industria, posizionamento della frontiera competitiva italiana sulla competitività basata sul prezzo, mantenimento di produzioni tradizionali con un basso tasso di innovazione di prodotto e di incorporazione di ricerca (giacché la ricerca costa e soltanto le medie e grandi imprese possono permettersela). È precisamente di questo insieme di fenomeni che pagano oggi il prezzo le decine di migliaia di lavoratori a rischio di licenziamento nel settore del tessile e del calzaturiero: perché è questo insieme di fenomeni che ha reso gran parte delle produzioni italiane sensibili alla concorrenza di Paesi in cui il prezzo della forza-lavoro è estremamente basso. Per dirla con Pierluigi Ciocca, vicedirettore generale della Banca d’Italia, oggi il sistema produttivo del nostro Paese paga limiti che risiedono principalmente “nella qualità, nella composizione merceologica, nel vecchio pertinace modello di specializzazione”; ed è proprio la ridotta dimensione delle imprese che “congela quel modello, restringe l’investimento all’estero, limita le esportazioni”.
4. Conclusioni
Da quanto abbiamo visto si possono trarre diverse conclusioni.
La prima riguarda il giudizio sulla crisi italiana attuale. Al contrario di quanto afferma un diffuso luogo comune, non si può dire che essa sia nata da una fiscalità sfavorevole alle imprese, come non si può dire che essa sia nata da costi del lavoro troppo elevati. È vero il contrario: essa nasce in una situazione che vede una fiscalità di fatto più che favorevole per le imprese, e in un contesto caratterizzato da costi del lavoro estremamente contenuti. Ma si può dire di più: forte evasione e bassi costi del lavoro sono tra le cause della crisi italiana. Entrambi questi fattori non solo non hanno giovato nel lungo periodo all’economia italiana, ma hanno contribuito a spingerla nel vicolo cieco di un modello competitivo perdente, sotto almeno due profili: scoraggiando l’innovazione ed il passaggio da settori produttivi maturi a settori in sviluppo e a più elevato contenuto tecnologico, e agendo da freno ai processi di concentrazione industriale.
E veniamo alla seconda conclusione: la situazione di cui sopra ha contribuito a divaricare fortemente le diverse frazioni della borghesia italiana. È un fatto che gli interessi, e lo stesso posizionamento politico, delle piccole imprese sono sempre più divergenti rispetto agli interessi delle medie e grandi imprese. Lo sono al punto che le piccole imprese sono giunte ad esprimere un proprio presidente della Confindustria, Antonio D’Amato, in esplicito contrasto con la grande borghesia; salvo vedere ripristinato poi il dominio di quest’ultima con la presidenza di Confindustria attribuita a Luca Cordero di Montezemolo (cioè alla Fiat, o a quello che ne resta). Non meno netta è la differenziazione sul piano più propriamente politico: se la Confindustria di D’Amato, espressione dei piccoli, era collaterale ed organica al governo Berlusconi (al punto da trasformare il proprio organo di stampa, il Sole 24 Ore, in un foglio filogovernativo), la Confindustria di Montezemolo – formalmente più equidistante – di fatto ha già attaccato in più occasioni le scelte del governo Berlusconi. Infine, ed è forse l’aspetto più di tutti significativo, le differenti posizioni nei confronti dell’integrazione europea: apertamente scettica quella di D’Amato, “europeista” quella di Montezemolo. Ovviamente non si tratta di divergenti impostazioni culturali, ma di concretissimi interessi materiali in conflitto.
In effetti per la grande impresa l’assenza di politiche economiche in qualche modo coordinate a livello europeo presenta pesanti controindicazioni. A partire proprio dal piano fiscale. Infatti una fiscalità non omogenea (e più in generale la persistenza di quadri normativi nazionali non armonizzati) priva tutte le multinazionali europee di uno dei principali vantaggi dell’Unione economica e monetaria, ossia l’abbattimento di alcuni “falsi costi di produzione” (quali la necessità di costruire società ad hoc in ogni Paese per seguire le legislazioni nazionali, l’impossibilità di una contabilità unica, la necessità di tanti uffici fiscali quante sono le legislazioni nazionali, ecc.): e in tal modo impedisce il pieno sfruttamento delle economie di scala. Essa è poi, per altri versi, di ostacolo alla creazione di un mercato finanziario europeo pienamente integrato (aspetto, quest’ultimo, assolutamente necessario perché l’unione monetaria dispieghi in pieno i propri effetti in termini di attrazione dei capitali internazionali). Ovviamente contrapposto è l’atteggiamento di chi – come la gran parte delle piccole imprese italiane – vede una garanzia di sopravvivenza nel mantenimento di nicchie e rendite di posizione e vede con paura e sospetto ogni tentativo di regolamentazione a livello comunitario (e si può ben capire che tra gli incubi dei nostri Brambilla vi sia quello di un fisco europeo, che magari pretenda che le tasse si paghino davvero…). Tutto questo ci dà una chiave di lettura anche per capire l’eurofobia del governo Berlusconi: sono infatti gli interessi profondi del blocco sociale di riferimento di Forza Italia (e della Lega) a chiedere meno Europa (o un’Europa che sia niente più che una zona di libero scambio).
La terza conclusione riguarda il futuro (assai incerto) dell’economia italiana. Nelle ultime settimane si è sviluppato, a partire da una lettera pubblicata sul Sole 24 ore e sottoscritta da un nutrito gruppo di economisti, un dibattito sulle politiche economiche necessarie per fare uscire l’Italia dal pantano attuale. Tutto la discussione ha un che di surreale. Da una parte gli estensori della lettera (tra i primi firmatari Piero Barucci e Tito Boeri), che chiedono di non allentare il “rigore fiscale e monetario” e stigmatizzano il “lassismo fiscale” berlusconiano. Dall’altro rispondono alcuni monetaristi irredimibili (Alesina, Perotti e Tabellini), tuonando: “è impensabile perseguire un maggiore rigore fiscale con il solo metodo fin qui applicato in Italia: aumentando le tasse”. È il ministro della difesa, Antonio Martino, riscopertosi economista, dà loro man forte: “il torto del governo non è certamente quello di aver ridotto le tasse, ma di averle ridotte troppo poco”.
Sarebbe facile rispondere a Martino che il governo in verità le tasse le ha aumentate ai lavoratori e ridotte agli altri, premiando chi non le pagava affatto. Ma il punto non è questo: è che in nessuno di questi prodotti dei migliori ingegni economici di questo Paese si accenna, neppure di sfuggita, all’evasione fiscale. E sì che 210 miliardi di euro all’anno non dovrebbero sfuggire agli occhi aguzzi di un cotal plotone di economisti quantitativi!
Ma forse le cose stanno in maniera diversa. Forse viene dato per scontato che l’evasione non possa essere combattuta. Che l’evasione sia la grande “compatibilità di sistema”, di cui bisogna tenere conto sempre e comunque.
Un tempo le “compatibilità” erano i profitti. Oggi le rendite e l’illegalità fiscale e contributiva. A pensarci bene, è la migliore sintesi della miseria del capitalismo italiano attuale.
Roma, 29 giugno 2005