Fiom, undici punti per un programma di “legislatura”

Un sindacato non ha a disposizione giornali, televisioni e “governi amici”, contratta e basa la sua capacità di rappresentare i lavoratori su quello che propone e ottiene. Sarà un caso, ma proprio da qui è ripartita la Fiom per indicare la strada per battere «la precarietà che invade i tempi di lavoro e di vita». Un migliaio di partecipanti alla Camera del lavoro di Milano hanno assistito alla presentazione di un vero e proprio programma “di legislatura” metalmeccanico a partire dal problema numero uno: il lavoro ridotto a variabile dipendente del processo produttivo nelle libere mani dell’impresa. «L’Italia è uno dei paesi più diseguali d’Europa, con forti differenze di reddito, di opportunità di lavoro, distanze sociali perenni e invalicabili», scrive il rapporto Istat 2005 e da qui parte Maria Sciancati, segreteria generale della Fiom milanese, per snocciolare i numeri della crisi sociale, del costo del lavoro tra i più bassi d’Europa, della piaga del precariato. «Per chi vuole disporre ancora di più e unilateralmente dei lavoratori, c’è solo un ostacolo da rimuovere: il contratto nazionale. Ed è lì che dobbiamo ripartire». Contrattazione per sconfiggere la precarietà, estendere diritti e ridare senso alla partecipazione. Aprendo un confronto serio sulla differenza tra teoria e pratica della contrattazione, tra ciò che si chiede e si ottiene per “ridare valore al lavoro” come la Cgil sostiene.
Economisti, giuristi e sindacalisti hanno provato a declinare il bisogno di “buoni contratti, buoni accordi, buone leggi” per il lavoro e l’economia, senza eludere la sfida lanciata da Confindustria per scaricare ancora una volta su lavoratori e Stato il peso della crisi. «Abolire la contrattazione nazionale, flessibilità d’orario, due terzi del cuneo fiscale per le imprese… i desideri industriali sono ben articolati – spiega Pierfranco Arrigoni, segretario generale della Fiom Lombardia – mentre da parte del governo c’è confusione e scarsa chiarezza di contenuti. Noi diciamo: voltiamo pagina, capiamo cosa il governo ha intenzione di mettere in campo, ma cominciamo ad affrontare il dibattito. Il perno della crescita di economia e consumi, della qualità della produzione e dell’innovazione è il lavoro». D’altronde, come ricorda Andrea Lassandari, economista dell’Università di Bologna: «Dovrebbe essere chiara da tempo la necessità di passare da una via di competizione bassa, basata su lira debole e bassi salari, a una via alta, basata sulla qualità della produzione e l’euro forte». » la strada tedesca – e in parte francese – che non è rose e fiori per il sindacato, ma che agguanta la crescita. Una metamorfosi necessaria, invocata e ancora incerta.

Tocca a Giorgio Cremaschi la presentazione delle proposte e degli obiettivi e il segretario nazionale della Fiom è un fiume in piena. La sintesi del quadro è ormai nota: il precariato è il male sociale della nostra epoca e uno dei problemi più forti che bloccano la ripresa dell’economia e dell’industria. E’ l’antica legge della produttività italiana al minor costo del lavoro, invece che con maggiore qualità. Così si lavora peggio e continuare a sostenere che l’unica soluzione è “precariare meno, precariare tutti”, abbassando le garanzie per chi le ha, non farà che aggravare le malattie del sistema: lavoro nero, clandestino, sommerso, salari insufficienti per riproduzione del potere d’acquisto, lavoratori sostituibili dal dumping sociale. E’ la teoria della svalutazione competitiva del lavoro normata dal Decreto 368 sulla liberalizzazione dei contratti a termine (sotto i sette mesi), decreto 66 sugli orari di lavoro, norme sul part-time e decreto 276, fino al supermarket della flessibilità con la Legge 30. Per mettervi mano occorrerà una riscrittura del diritto del lavoro per riportare il contratto a tempo indeterminato alla normalità e quelli a termine all’eccezione.

Cremaschi presenta una road map per battere il lavoro precario in 11 punti: 1) modifiche all’art. 2094 del codice del lavoro per smascherare i contratti a tempo indeterminato tra co. co. co e partita Iva: 2) lavoro a termine solo per attività fuori dalle condizioni normali di produzione e in competizione con gli straordinari; 3) lavoro interinale ricondotto a mansioni eccezionali assenti nell’attività aziendale (all’Ilva di Taranto l’hanno firmato pochi giorni fa); 4) orario part-time concordato col lavoratore, non a disposizione dell’impresa; 5) l’apprendistato come unico contratto “d’entrata”, con una formazione definita e organizzata a carico dell’azienda; 6) ripristinare la legislazione sugli appalti e la responsabilità del committente sul lavoro terziarizzato; 7) flessibilità degli orari solo in contrattazione aziendale (con orario massimo e minimo nazionale per legge); 8) responsabilità sociale dell’impresa: “chi delocalizza paga”; 9) tutela contro i licenziamenti ingiusti in tutte le aziende di ordine e grado; 10) estensione generalizzata degli ammortizzatori sociali; 11) tutela del lavoro migrante (dall’abolizione della Bossi-Fini e dei Cpt al diritto di voto).

Nella contrattazione gli obiettivi sono ancora più imperativi: limiti di tempo massimo di precarietà, soglia di quantità di lavoro precario al 10%, controllo sulla formazione, gli appalti e respingere qualsiasi unilateralità delle aziende su orari e flessibilità. Il confronto più duro con Confindustria sarà proprio su questo: scambiare precarietà contro orario, perché come ricorda Giovanni Naccari, della consulta giuridica della Cgil: «La concorrenza tra flessibilità e garanzie è quasi sempre uno specchietto per le allodole, la precarietà è una questione di potere sul lavoratore». E il potere sull’orario di un lavoratore stabile è ancora meglio per l’impresa. Lo dice la storia del movimento operaio che evidentemente in molti si affannano a cancellare.