Finanziaria, l’Unione non riesce a guardare al di là dei «tagli»

In attesa della legge finanziaria, autorevoli partecipanti al dibattito estivo sembrano dividersi tra le alternative che in essa si debba procedere a «tagli» o a «riforme»; in realtà, anche i più benevolenti verso la seconda opzione (o semplicemente verso il Ministro dell’Economia) tendono a minimizzare la differenza e, sostanzialmente, a ridurre le seconde ai primi. Si discute molto anche dell’altro corno della politica fiscale, cioè delle entrate fiscali il cui flusso – buona notizia – si annuncia superiore al previsto, come effetto (sembra) di una contrazione dell’evasione fiscale. A questo proposito si sono anche formate due «scuole di pensiero»: chi sostiene che la lotta all’evasione debba precedere la riduzione delle aliquote fiscali e chi parteggia per una consequenzialità inversa. Anche tra questi due punti di vista si è delineata una sorta di convergenza nella proposta che il Governo dia assicurazione formale affinché tutte le maggiori entrate derivanti dal recupero dell’evasione siano ridistribuite sotto forma di riduzione delle imposte. E’ più difficile, invece, (il berlusconismo non si è diffuso invano) rintracciare la posizione che le imposte decise in un sistema democratico, quali che siano, semplicemente si pagano – senza che tale apparente banalità sia seguita da una serie di condizioni che comunque la inficiano. Larga parte degli opinionisti è poi concorde sull’opportunità di ridurre la pressione fiscale; molti manifestano anche una certa insofferenza, più o meno palese, sui tentativi in corso o sulle modalità pensate per ridurre l’evasione (si fa riferimento a tentativi «vampireschi»). E tanto più questa insofferenza si esplicita, diventa più forte il richiamo alla necessità di migliorare in tempi ridotti il saldo del bilancio pubblico; il cerchio si chiude con la richiesta di «tagli» più intensi e rapidi alla spesa (per l’apparato della Pubblica Amministrazione, per l’offerta di servizi, per la sanità e per le pensioni) senza voler nemmeno indulgere nelle ambiguità terminologiche che potrebbero derivare dall’espressione «riforme» (le quali, effettivamente, non si fanno per motivi di cassa immediati).
Più opportunamente – da altri economisti – è stato fatto notare che voler abbassare il disavanzo pubblico sotto il 3% già nel 2007 (scadenza che al governo Berlusconi l’Unione Europea non aveva posto) rischia di appesantire la già debole congiuntura e, ciò che più conta, ostacola l’avvio delle politiche strutturali (economiche e sociali) necessarie ad invertire la nostra tendenza al declino; nel Dpef si ammette che la manovra proposta ridurrà nel 2007 la crescita dello 0,3% e i consumi delle famiglie dello 0,5%. A ben vedere «l’equivoco» che sembra dominare il dibattito è che, specialmente in un’ottica non congiunturale, la politica di bilancio non può limitarsi alla definizione dei flussi quantitativi di entrata e di spesa e del loro saldo, ma deve tener conto anche delle specificità dei loro effetti economici e sociali; in ogni caso, la manovra di bilancio è uno degli strumenti della politica economica, non dei suoi obiettivi che invece includono la crescita, lo sviluppo, l’occupazione, la distribuzione del reddito, gli equilibri sociali e la stabilità monetaria. Diversamente da quanto sembrano intendere coloro che non vogliono nemmeno sentir parlare di «riforme», è su questi obiettivi e sulle modalità concrete di realizzarli che dovrebbe concentrarsi il dibattito. In effetti, limitare l’attenzione ai «tagli» implica la riproposizione ideologica di una fiducia tanto integralistica (preoccupante segno dei tempi) quanto smentita dalle vicende economiche anche degli ultimi decenni, che il mercato possa fare a meno delle politiche economiche e sociali; tuttavia, tali politiche richiedono strutture efficienti e capacità di spesa funzionali all’innovazione produttiva e al riequilibrio sociale. L’alternativa tra «tagli» e «riforme» non coincide – come anche qualche autorevole economista tende ad avvallare – con quella tra «rigore» e «irresponsabilità»; implica invece una scelta di sostanza economica, sociale e politica che certo non è semplice da declinare nella pratica, ma alla quale questo Governo non può sottrarsi. L’Esecutivo,invece, scontando anche problemi di assestamento degli equilibri sociali e politici, sembra frenato da una certa indeterminazione ed estemporaneità di comportamenti. Nella Maggioranza è particolarmente preoccupante la sensazione di marginalità nelle scelte da parte delle sue componenti di sinistra che pure dovrebbero essere le forze più sensibili al rinnovamento della politica economica e sociale e, dunque, dovrebbero sforzarsi di manifestare in modo politicamente efficace (coordinandosi) e tecnicamente adeguato (con strutture professionali corrispondenti) l’esigenza di riforme e di rottura con il passato che pure aveva trovato chiara evidenza nel Programma dell’Unione.