Ormai è una dolente abitudine. Puntualmente, con il varo della legge finanziaria, tornano a campeggiare sulle prime pagine dei giornali italiani le cifre del disastro sociale in atto nel nostro Paese. Articoli di fondo e resoconti statistici ci informano di quello che ciascuno sa già per esperienza diretta dalla vita di ogni giorno, confermando i dati di un ormai pluriennale processo di impoverimento di massa. Qualcuno è più sfortunato di altri: infatti stai decisamente peggio se sei giovane (in cerca di lavoro o precario), se sei anziano (col minimo di pensione), se sei capofamiglia monoreddito con figli a carico, se sei donna sola con prole, se abiti al Sud.
Il consuntivo del Tesoro, pubblicato qualche giorno fa, ha reso noto che i prezzi non amministrati sono aumentati di una percentuale più che doppia (+5,1%) rispetto a quella del tasso di inflazione. A crescere sono le spese fisse delle famiglie, quelle di cui non si può proprio fare a meno. In effetti si può mangiare un po’ meno o adeguarsi ad una qualità inferiore, comprando al mercato con oculatezza e parsimonia (come qualche tempo fa ha invitato a fare il Presidente del Consiglio); e si può anche evitare di rinnovare il proprio guardaroba. Non a caso, nei settori dell’alimentazione e del vestiario, tranne qualche notevole eccezione (il latte, per esempio), i prezzi non salgono perché appunto i consumi ristagnano. Ma non si può certo rinunciare all’acqua da bere e con cui lavarsi, alla luce elettrica, al pagamento dell’affitto. Né è pensabile di privarsi del tutto dell’automobile, per sfuggire al vertiginoso aumento che dalla metà degli anni ’90 ad oggi ha subito il costo dell’assicurazione obbligatoria. Tanto meno si può arrivare a penalizzare i propri figli, negando loro di frequentare la scuola dell’obbligo o quella secondaria, perché si è impennato il costo dell’istruzione.
Il punto è dunque drammatico, nella sua semplicità: un numero sempre maggiore di italiani non ce la fa a far quadrare i conti, guarda con preoccupazione non solo al proprio futuro e al sopraggiungere di eventi imponderabili cui far fronte economicamente, ma anche – più prosaicamente – all’ultima settimana del mese. L’ennesima indagine dell’Eurispes dà conto di tale situazione. Le famiglie si indebitano sempre di più con le banche (a fine anno, qualcosa come 400 miliardi di euro) non solo per comprare casa, ma per sopravvivere: una metà dell’ammontare complessivo dei crediti bancari serve per pagare i mutui, ma l’altra metà è utilizzata per finanziare beni di prima necessità, per pagare bollette, imposte, debiti pregressi. In quest’ultimo dato si esprime l’estremo e disperante esito della divaricazione tra prezzi che salgono, da un lato, e, dall’altro, retribuzioni e pensioni che continuano a restare al palo.
Tutto questo chiama pesantemente in causa le responsabilità del governo delle destre: un governo che non ha cessato dall’istante successivo al suo insediamento di premiare rendite e profitti, rendendosi protagonista di una feroce offensiva di classe ed ergendosi a garante di uno dei più consistenti travasi di reddito ai danni delle masse popolari dal dopoguerra ad oggi. La realtà economica e sociale del Paese non ammette repliche: prima se ne vanno, meglio è per tutti.
Non possiamo tuttavia esimerci dal proporre almeno tre osservazioni al centro-sinistra, il quale dovrebbe candidarsi a promuovere insieme a Rifondazione Comunista politiche di alternativa. La prima: davanti al sostanzioso incremento delle tariffe “liberalizzate” (che, detto per inciso, non è destinato a frenare nemmeno per il prossimo anno) e, dunque, al fallimento della logica di mercato in tema di servizi essenziali, non si può insistere nel proporre una politica di ulteriori liberalizzazioni. A meno che non si ragioni sulla scorta di un mito ideologico che immagina per l’oggi un’ottocentesca condizione di libera concorrenza, dovrebbe essere del tutto evidente che, nell’attuale regime di oligopolio, liberalizzare non equivale affatto ad incentivare l’efficienza del servizio ma solo a garantire alle grandi aziende private l’utile assicurato da un mercato protetto (a tutto danno degli utenti). Questo è quel che dicono i dati odierni: e non è un caso che, nei sondaggi d’opinione, il servizio pubblico torni a riscuotere il maggior consenso e la maggior fiducia dei cittadini. Seconda osservazione. Ci fu un tempo – verso la metà degli anni ’70 – in cui una larga parte degli stessi sindacati confederali volle convincerci del fatto che l’abolizione referendaria della scala mobile non era tutto sommato una gran perdita per i lavoratori: anzi, ci fu detto che ridurre drasticamente la quota degli incrementi automatici di salario avrebbe consentito di allargare quella del salario contrattato, a tutto vantaggio dell’azione sindacale e del potere contrattuale dei lavoratori. Abbiamo visto in questi anni quanto infondata fosse tale profezia: la verità è che, in quella battaglia, i lavoratori persero in salario automatico e non guadagnarono affatto in salario contrattato, rinunciando così non solo ai dispositivi di difesa della retribuzione reale ma scontando un arretramento secco in termini di potere, in fabbrica e fuori dalla fabbrica. Morale: davanti alle catastrofiche cifre del carovita, cosa si aspetta a rivendicare un nuovo dispositivo di adeguamento delle retribuzioni e delle pensioni al costo della vita (comunque lo si voglia chiamare)? Terza riflessione, nella forma di un rapido interrogativo: come si pensa possa sopravvivere in vecchiaia un giovane oggi trentenne, con un lavoro precario e intermittente, in grado di costituirsi con il vigente calcolo a capitalizzazione una pensione che, se va bene, equivarrà a circa un terzo dell’attuale retribuzione? Non mi si risponda: sopravviverà grazie ad una pensione integrativa; poiché dovrei in tal caso replicare: ma con che soldi si ritiene che il giovane precario possa pagarsi il suddetto trattamento integrativo?
Come si vede, in tutti questi casi è implicata la richiesta (nient’affatto estremista) di una redistribuzione di reddito e di una riattivazione della domanda, nonché del rilancio di una politica pubblica degna di questo nome. Giro queste riflessioni alla parte moderata del centro-sinistra, ritenendo che su tali questioni non possa non esservi una soluzione di continuità rispetto al passato (e non solo, dunque, rispetto al presente berlusconiano).