Signor Presidente, Signor Presidente del Consiglio, Signori membri del Governo, Onorevoli Colleghi,
rappresentare implica comprendere la volontà dei rappresentati. Nel caso degli elettori dell’Unione, non è certo azzardato supporre una forte volontà di cambiamento.
I nostri elettori chiedono un’inversione di tendenza rispetto ai cinque anni che ci lasciamo alle spalle. Questo è vero per tutti i terreni su cui si eserciterà l’azione del nuovo governo. Ma vale in particolare per alcune grandi questioni: il lavoro e la giustizia sociale; la politica giudiziaria e la salvaguardia delle istituzioni repubblicane; la pace.
Parlare del lavoro e dei suoi diritti significa in primo luogo parlare di precarietà. Di recente proprio l’on. Damiano ha scritto che «nelle aree forti del Paese la quota di lavoro precario nelle nuove assunzioni» (che riguardano in gran parte i nostri giovani) «è pari al 70%» e che si registra una «tendenza alla crescita della precarietà». Questo accade nelle aree più sviluppate. Se ci riferissimo alle regioni più deboli – a cominciare dal Mezzogiorno – le stime sarebbero molto più pesanti.
Tale stato di cose non è frutto di un destino avverso. È il risultato di scelte che hanno sistematicamente scaricato sul lavoro le carenze e i ritardi del nostro apparato produttivo.
Da questa situazione occorre uscire rapidamente, tutelando i diritti del lavoro e generalizzando il rapporto a tempo indeterminato. Si smetta di considerare il lavoro come un problema e non come la risorsa fondamentale del Paese! E si cessi da una retorica della «buona flessibilità» che troppo spesso cela una inconfessata propensione a perseverare nella precarizzazione del lavoro dipendente!
Dire giustizia sociale significa denunciare la redistribuzione selvaggia della ricchezza attuata in questi anni a vantaggio dei grandi patrimoni e delle rendite. Non mi attarderò a citare dati ufficiali. Ne ricordo uno soltanto, particolarmente significativo: nel 2005 l’indebitamento delle famiglie (una manna per gli usurai, oltre che per banche e finanziarie) ha raggiunto cifre record, pari al 30% del Pil, contro il 18% del 1996.
È una situazione insostenibile, che dev’essere rapidamente superata. Per questo sono urgenti la restituzione del fiscal drag; l’attribuzione ai salari di una quota rilevante della riduzione del cuneo fiscale; l’istituzione di un meccanismo che attui un’efficace difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni; la fine dello scandalo di un’evasione fiscale corrispondente ad oltre 200 mld di euro l’anno (e – stando alle ultime rilevazioni della GdF – in vertiginoso aumento).
Signor Presidente del Consiglio, non si tratta solo di un’esigenza di equità. Si tratta anche dello sviluppo del nostro Paese, poiché non vi è possibile rilancio dell’economia se tanti lavoratori e pensionati faticano ad arrivare ai mille euro al mese. E si tratta altresì di saggezza politica. Il disagio può indurre a scelte gravi, come insegna drammaticamente la storia del Novecento. Non mancano campanelli d’allarme in questo senso: in Inghilterra lo scorso 4 maggio interi quartieri operai di Londra – colpiti dalla disoccupazione e da una politica di privatizzazioni e di tagli alla spesa sociale – hanno votato per il British National Party, diretto erede di una formazione neonazista. E anche nel nostro Paese il fenomeno di operai e pensionati che votano a destra tende ad espandersi in misura inquietante.
Vi è poi la questione della politica giudiziaria e istituzionale.
In questi cinque anni il Paese ha assistito alla sistematica aggressione della magistratura da parte della precedente maggioranza, culminata nel varo di leggi che hanno sancito impunità, bagatellizzazione di gravi reati societari, impedimenti al regolare svolgimento dei processi. Leggi che mirano al controllo politico della magistratura, che rischiano di mettere in forse la stessa funzione di garanzia della Corte costituzionale e che hanno procurato gravissimi guasti anche al tessuto morale e civile del Paese, elevando a modello comportamenti antisociali, improntati all’indifferenza nei confronti del bene pubblico.
Tutto questo mentre si sono promulgate norme intolleranti delle libertà civili e leggi repressive nei confronti di chi vive, suo malgrado, ai margini della società, a cominciare dai tossicodipendenti e dai migranti in cerca di occupazione. Ne fa fede la situazione delle nostre carceri, che Ella, signor Presidente del Consiglio, ha definito, a ragione, «insostenibile»: una situazione per la quale si impongono immediati provvedimenti di clemenza, che almeno riportino il totale dei detenuti a una quantità corrispondente alla capacità recettiva degli istituti, oggi superata di oltre 20mila unità!
Anche da questa grave condizione del sistema giudiziario occorre uscire rapidamente, adottando misure che attuino in tempi brevi l’obiettivo costituzionale della ragionevole durata dei processi nel rigoroso rispetto del principio di eguaglianza di tutti i cittadini.
Il catalogo delle questioni impellenti sarebbe ancora lungo. Imporrebbe di parlare di quella bomba ad orologeria che è la riscrittura della seconda parte della Costituzione attuata dal centrodestra. Concordo con quanti considerano il voto del referendum di giugno come il più importante di tutti, e penso sia imprudente dare per certa la prevalenza dei no. Occorre una grande mobilitazione, per scongiurare il rischio di una conferma di questa pessima riforma, che spaccherebbe il Paese e che farebbe del «capo del governo» il dominus incontrastato dell’intero sistema politico.
Bisognerebbe parlare anche dell’emergenza abitativa; dei problemi irrisolti del Mezzogiorno; della violenza posta in essere nei Cpt; della scuola e dell’Università (sulla quale si allungano minacciose ombre di disegni di privatizzazione).
Mi limiterò, in chiusura, a un altro solo tema, forse il più importante e urgente di tutti.
La situazione in Iraq e in Afghanistan è sempre più grave. Ogni giorno l’elenco delle vittime civili e militari di ogni parte si allunga drammaticamente. I nostri cittadini ci chiedono di porre fine – per quanto è in nostro potere – a questa situazione non più tollerabile.
È necessario ritirare immediatamente le nostre truppe dall’Iraq, secondo quanto stabilito nel programma dell’Unione. Non parlerò della menzogna delle armi di distruzione di massa. Né di Abu Ghraib e della vergogna delle torture. Né di Fallujah e del fosforo bianco. Né del dilagare del terrorismo che la guerra avrebbe dovuto fermare. Mi limito ad osservare che in Iraq è stato finalmente insediato un governo: se davvero crediamo che si tratti di un governo legittimo e sovrano, dobbiamo allora riconoscere che la presenza di eserciti stranieri non è più giustificabile (ammesso che prima lo fosse) e non ha più alcuna ragion d’essere.
Anche in Afghanistan il fallimento della strategia della Nato e degli Stati Uniti è sotto i nostri occhi. È in atto un’incalzante escalation della violenza bellica. Per contrastare le milizie talebane i comandi militari chiedono ulteriori dispiegamenti di forze. Si tratta di una guerra in piena regola, come ha onestamente riconosciuto nei giorni scorsi anche l’ambasciatore Sergio Romano, certo non tacciabile di debolezze pacifiste.
Come Ella sa, signor Presidente del Consiglio, qualche giorno fa è stato diffuso un appello che chiede il ritiro immediato dei militari italiani da tutti i teatri di guerra, nel rispetto della nostra Costituzione. A questo appello – promosso da autorevoli personalità del mondo cattolico e del volontariato – hanno subito aderito decine di associazioni, migliaia di nostri concittadini e molti parlamentari della Repubblica.
A Lei e al governo da Lei presieduto rivolgiamo la preghiera di ascoltare questa vibrante domanda di pace, che dà voce a un sentimento vivo nella grande maggioranza del nostro popolo. Così come Le chiediamo di adoperarsi affinché l’Italia e l’Unione europea favoriscano una giusta risoluzione del conflitto israelo-palestinese: perché sia finalmente fermata la strage degli innocenti e perché, nel rispetto della sicurezza di Israele e delle risoluzioni delle Nazioni Unite, si realizzi in tempi brevi la nascita di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, entro i confini precedenti la guerra del 1967.
Il mondo è stanco di guerre e di violenza. L’Italia (che oggi occupa un assai poco onorevole settimo posto nella graduatoria mondiale delle spese militari) deve tornare ad essere una forza di pace e di giustizia. Questo è l’auspicio con cui oggi Le auguriamo buon lavoro, consci delle grandi responsabilità che L’attendono, ma anche fiduciosi nella Sua buona volontà.