Festa 2005: il dibattito sul lavoro

La festa nazionale dell’Ernesto si è aperta ieri, a Santa Marinella (RM), con un dibattito sul lavoro in Italia molto partecipato e ricco di spunti.
Il lavoro, non per caso, ma come precisa scelta politica, per superare lo scarto profondo tra la politica e il paese, come chiede Bruno Casati nel suo intervento, rimettendo al centro del dibattito pubblico i problemi reali delle lavoratrici e dei lavoratori, consapevoli che il conflitto tra il capitale ed il lavoro rimane questione irriducibile, premessa necessaria di ogni analisi, anche della crisi economica che oggi attraversiamo.
Ci si può interrogare, come fa ancora Casati interloquendo con Gianni Rinaldini, sulla formula (dissesto o declino) con cui descrivere la crisi dell’intero impianto produttivo italiano. Il punto è però – su questo concordano tutti gli interlocutori – definire ed avanzare proposte precise per invertire la rotta, senza commettere l’errore di ripetere un passato (quelle misure economiche e sociali dei governi di centrosinistra degli anni Novanta) dentro il quale si colloca proprio la genesi della crisi di oggi.
Investimento sul modello dei distretti e quindi sulla produzione a basso valore aggiunto e, specularmente, de-investimento sulla grande industria; svalutazione della lira e compressione della domanda interna e dei salari: oggi si è definitivamente al capolinea di quel percorso avviato con gli accordi del luglio 1992-93 e con le politiche anti-sociali del governo Amato.
La specificità italiana, nota Rinaldini, è però interna ad un processo generale che comincia ben prima del 31 luglio 1992 e 23 luglio 1993, affondando le radici nelle molteplici sconfitte della classe operaia dei primissimi anni Ottanta, di cui i 35 giorni della Fiat sono l’emblema, e nell’emergere, devastante, delle politiche liberiste di Thatcher e Reagan.
E oggi è quel modello di liberismo, sperimentato nel nostro Paese negli ultimi quindici anni, ad essere in profonda, definitiva crisi, insieme all’idea, come dice ancora Rinaldini, «che il capitalismo possa reggersi sulla rendita e sul monopolio», accollando poi allo Stato e alla collettività i costi sociali delle ristrutturazioni.
In questo contesto, con un Mezzogiorno totalmente dimenticato, dove al problema dell’assenza di sviluppo si aggiungono le difficoltà di un sistema democratico bloccato, privo di forze produttive organizzate e ricattato dal cancro mafioso (come ci ricorda Guagliardi nel suo intervento) e con una classe imprenditoriale «socialmente irresponsabile», incapace di competere sul terreno dell’innovazione e della ricerca, si colloca l’urgenza di un programma di governo alternativo a Berlusconi e diverso da quelle politiche moderate che a Berlusconi hanno aperto la strada nel corso degli anni Novanta.
Come fare, si diceva, per cambiare il passo, coniugando, come sollecita Cesare Salvi, la crescita economica con una maggiore giustizia sociale?
Innanzitutto «ridare potere d’acquisto ai lavoratori per riconoscere il salario come elemento di arricchimento del tessuto sociale» (Damiano Gagliardi), in secondo luogo «recuperare la grande industria e aggregare masse critiche attraverso la mano pubblica orientante, ricostruendo episodi e processi di economia mista» (Casati), poi «utilizzare la leva fiscale in maniera intelligente ed investire sulle riforme a costo zero, sostituendo la legge 30 con una legge che ristabilisca la centralità dei contratti a tempo indeterminato e con una legge sulla democrazia sindacale» (ancora Salvi).
Al termine del dibattito, ascoltati i compagni che, dal pubblico, sono intervenuti, rimane il dubbio: come uscire dalla crisi, eludendo le pressanti ipoteche sulla politica dell’Unione da parte di Confindustria ed attutendo l’impatto disastroso che le richieste di tagli dell’Unione Europea (40.000 miliardi) avranno sulle prossime due finanziarie?
E sopratutto: dov’è, a pochi mesi ormai dalle elezioni politiche, il programma comune del centro-sinistra?