Dati alla mano, nella Sinistra arcobaleno, c’è poco da gioire. Qualora non si dovesse raggiungere la soglia dell’8 per cento potrebbe saltare tutto. Ma i bertinottiani scandiscono a chiare lettere: «Il progetto è irreversibile». E preparano lo strappo: da cartello elettorale a partito unico. Anche se, per ora, la parola «partito» viene pronunciata solo a microfoni spenti. Con una novità, dicono gli uomini del presidente: si va avanti con chi ci sta. E la parola d’ordine è: accelerare, nonostante gli abbandoni in vista. A partire dal Pdci di Diliberto considerato, dentro Rifondazione, in libera uscita sin dai gruppi parlamentari. Che succederà il 15 aprile? «Io resto comunista», dice Marco Rizzo. Una parte del suo partito alla falce e martello proprio non è disposta a rinunciare. E sta lavorando, dicono dalle parti di Rifondazione, per un’unità comunista a sinistra dell’arcobaleno. Uno schema analogo, ma con lo sguardo verso il Pd, è quello di una parte dei verdi, che vuole una linea autonoma a partire dalle europee del prossimo anno. O che, comunque, allo scioglimento del partito non pensa proprio, come Bonelli e Pecoraro.
Fiutando le difficoltà in cui versa l’operazione, almeno a livello di gruppi dirigenti, ieri il ministro Paolo Ferrero, di fatto, ha aperto la resa dei conti per il dopo voto. In un’intervista a Liberazione ha spiegato che meglio di un partito unico sarebbe una federazione: «Una casa in cui ognuno stia comodamente per quello che è». Una mossa interpretata, dentro Rifondazione, come una candidatura alla segreteria su una linea ben precisa: non fare la Cosa rossa. Il leader della minoranza “Essere comunisti” Claudio Grassi, infatti, afferma: «Quello che sostiene Ferrero dovrebbero dirlo tutti. La sinistra arcobaleno non prelude allo scioglimento del partito né all’abbandono del simbolo».
Sarà dunque Rifondazione l’epicentro dello scontro nei prossimi mesi. In attesa di un congresso, che dovrebbe svolgersi a novembre, lo stato maggiore bertinottiano prepara la svolta, mettendo anche in conto una rottura. Spiega Alfonso Gianni, vicinissimo al candidato premier: «La campagna elettorale mostra come il processo che abbiamo avviato sia irreversibile. Lo vuole il nostro elettorato». E a Ferrero dice: «Il modello federativo ha prodotto gli aspetti negativi di queste liste, i veti incrociati, le candidature per quote. Il tema vero è se fare il soggetto unitario: sì o no. Io dico sì». Bertinotti, dicono i suoi, ha gjà pronta la road map. Che parte da un punto su cui non è disposto a trattare: dopo una campagna elettorale in cui i segnali di entusiasmo arrivano quando si dice «non siamo solo un cartello elettorale» non si può aspettare novembre e fare una fusione fredda. Di qui uno schema che scavalca i giochi tattici all’interno del gruppo dirigente: la Cosa rossa si fa, con chi ci sta. C’è un mandato di tutte le assemblee di questi mesi, dicono i fedelissimi di Bertinotti. Quindi il “che cosa” non è in discussione. E neanche il “come”: visto che le mediazioni su “federazione sì – federazione no” di questi mesi avrebbero ridotto l’appeal dell’Arcobaleno, per il dopo voto Fausto prepara un segnale in equivoco: una costituente che non sia la somma dei gruppi dirigenti. Una linea, questa, che sarà chiarita da Giordano in un intervento su Liberazione la prossima settimana. Tra gli acceleratori Bertinotti e Giordano possono contare, oltre che sul grosso di Rifondazione, sull’asse con Mussi e, soprattutto, con il segretario della Fiom Rinaldini, il cui peso, non solo a livello simbolico, non è affatto irrilevante, dopo la rottura tra il grosso della Cgil e Cosa rossa.