«Fermare il referendum, o Kirkuk esploderà»

Tutta concentrata sul piano di sicurezza per Baghdad, l’Amministrazione statunitense resta a guardare l’escalation di tensione attorno alla città di Kirkuk, la cassaforte petrolifera del nord dell’Iraq contesa tra curdi, arabi e turcomanni. Nel suo ultimo rapporto l’International crisis group (Icg) avverte che Washington «deve riconoscere il rischio di un’esplosione a Kirkuk e convincere curdi, governo di Baghdad e Turchia a correggere le loro attuali politiche per favorire un accordo pacifico». Ad accelerare la corsa verso il baratro sarebbero attualmente due fattori: un referendum, fortemente voluto dai curdi, che potrebbe segnare l’annessione della città alla regione curda, e gli attacchi continui dei jihadisti che hanno trovato nella regione terreno fertile, cavalcando il risentimento anti-curdo degli arabi. Ne abbiamo discusso al telefono con Joost Hiltermann che da Amman (Giordania) coordina le ricerche dell’Icg per il Medio Oriente.
Perché giudicate così pericoloso il referendum?
La costituzione irachena prevede un generico referendum su Kirkuk, da indire entro la fine di quest’anno. I curdi vogliono una consultazione popolare sullo status della città, nel sottosuolo della quale c’è il 12% delle riserve di greggio iracheno. La leadership curda è pronta a portare alle urne migliaia di persone che non vivono nell’area, discendenti delle famiglie cacciate dal regime di Saddam Hussein (che favorì il trasferimento di arabi nella città). Arabi e turcomanni tuttavia rifiutano la semplice idea di un voto, che a causa degli attuali equilibri demografici porterebbe Kirkuk in Kurdistan. Uno sbocco inaccettabile anche per la Turchia, che teme che i curdi in possesso di petrolio possano puntare a uno stato indipendente.
Qual è oggi la situazione nell’area di Kirkuk?
Ci sono tensioni crescenti e maggiore violenza ma, con l’avvicinarsi della fine dell’anno si può verificare una vera e propria esplosione se Washington non interviene in maniera decisa, imponendo un negoziato che fermi la corsa verso il referendum. Se ciò non avverrà, le varie etnie cercheranno anche l’appoggio esterno: siriano per gli arabi, turco per i turcomanni.
Cosa hanno fatto finora gli Stati Uniti per disinnescare una situazione così esplosiva?
Assolutamente nulla. Hanno sottolineato che la Costituzione deve essere applicata, un approccio che le comunità non curde hanno percepito come totalmente a favore dei curdi, tradizionalmente alleati di Washington. Perché se è vero che applicare la costituzione è giusto, nel caso di Kirkuk ci troviamo di fronte a una situazione esplosiva che va fermata.
Come si lega la questione di Kirkuk alla legge sugli idrocarburi?
La legge recentemente approvata dal governo non affronta il problema della divisione dei proventi derivati dall’esportazione di greggio, ma solo quello delle concessioni alle compagnie straniere. I curdi sono d’accordo con una spartizione in parti uguali dei proventi del greggio: avrebbero anche loro da guadagnarne, perché le maggiori ricchezze sono nel sud sciita. I sunniti temono di rimanere tagliati fuori se non verrà affrontato al più presto il problema, con una legge. Ma attualmente il governo sciita controlla sia le aree sciite che quelle curde e non ha interesse ad accelerare questo processo. E in mancanza di una ripartizione, i curdi saranno invogliati a soluzioni separatistiche.
Qual è allora la soluzione per Kirkuk e i suoi pozzi?
È necessario un approccio a più livelli. I due principali partiti curdi, il Partito democratico (Upk) e il partito democratico (Pdk), devono adottare un nuovo approccio al problema, rinunciando al referendum; iniziare il dialogo con le altre etnie. Il governo statunitense deve mettersi in gioco e promettere la propria protezione al Kurdistan in cambio dell’abbandono della consultazione popolare. Washington deve inoltre fare pressioni affinché si arrivi ad un accordo sulla divisione degli introiti petroliferi. La Turchia deve finirla con la retorica di guerra e deve dare spazio alla diplomazia e al dialogo. Si tratta insomma di mettere in moto un approccio complessivo. Il tempo però stringe.