Fermare il declino italiano

Editoriale de Il Sole 24 Ore di mercoledì 15 giugno 2005

Che cosa fare per arrestare il declino economico dell’Italia? Il dibattito politico rivela una mancanza quasi totale di progetti e iniziative. Il governo si limita a ripetere che il Paese è ricco e non ci si deve allarmare, salvo invocare protezionismo o svalutazioni. L’opposizione lancia vacui slogan, come spendere di più in ricerca o combattere l’evasione fiscale. Ad ascoltare il dibattito politico, sembra che non ci sia proprio nulla da fare.
In realtà, le ragioni del declino economico dell’Italia sono ben note, così come i rimedi concreti. Ma la politica continua a guardare da un’altra parte. Ecco alcuni esempi concreti.
1) In base alla prassi giurisprudenziale, gli accordi salariali tra imprese e lavoratori devono rispettare i minimi contrattuali stabiliti dalla contrattazione nazionale. Per rimuovere questo vincolo, basterebbe una norma esplicita che autorizzi accordi aziendali in deroga ai contratti nazionali o che sostituisca i minimi contrattuali con un salario minimo stabilito per legge. L’effetto sarebbe dirompente: le imprese meridionali sarebbero finalmente libere di pagare salari in linea con la produttività del lavoro (molto più bassa al Sud che al Nord); sarebbe possibile sperimentare nuove forme di contrattazione, realizzando davvero la flessibilità che, a parole, molti dicono di volere. Ma nessuno ne parla, perché significherebbe contraddire decenni di lotte politiche e sindacali.
2) Il cuneo fiscale sul lavoro in Italia è tra i più alti al mondo; la distorsione penalizza le imprese che esportano e riduce l’occupazione. Ciò riflette una popolazione che invecchia, ma anche un sistema pensionistico troppo generoso. La vita residua media dei pensionati in Italia supera i 22 anni, contro poco più di 15 in Inghilterra e Stati Uniti. La ridefinizione dell’Irap va nella direzione giusta, ma ci vorrebbe ben altro. Per non aprire buchi di bilancio, non ci sono molte alternative: bisognerebbe alzare l’età media di pensionamento di almeno cinque anni, intervenendo con incisività sulle pensioni di anzianità e sull’età pensionabile. Ma la riforma delle pensioni è un tabù per entrambi gli schieramenti politici.
3) I nostri giovani ricercatori più brillanti emigrano all’estero e la nostra struttura produttiva non riesce ad acquisire vantaggi comparati nei settori ad alta intensità tecnologica.
La causa principale è lo stato comatoso in cui versa l’università italiana. Ogni 4 0 5 anni viene proposta una riforma dell’università. Ma nessuno ha mai affrontato il nodo centrale: che non è la mancanza di risorse, bensì la totale assenza di incentivi (dentro le università) e di concorrenza (tra università). La vera riforma? Far pagare il costo dell’istruzione universitaria agli studenti, sussidiarne la mobilità e chiudere le università che restano senza studenti. Ma chi avrebbe il coraggio di proporlo?

4) La produttività nei servizi è stagnante, sebbene in altri Paesi le nuove tecnologie informatiche e di comunicazione abbiano consentito di fard salti da gigante. La ragione del nostro ritardo è la mancanza di concorrenza. Il rimedio specifico varia da settore a settore, ma la strategia dovrebbe essere una sola: liberalizzare. Nel settore dei media, basterebbe privatizzare davvero, vendendo interamente due reti Rai, per rompere il duopolio Mediaset-operatore pubblico. Nel commercio, occorrerebbe forzare i governi locali ad aprire alla grande distribuzione. Nel settore bancario bisognerebbe iniziare dalla Banca d’Italia, e in particolare dalle sue competenze, dal suo assetto proprietario e dalla procedura di nomina del Governatore.

L’elenco delle cose da fare potrebbe facilmente continuare con i monopoli ancora controllati dallo Stato nell’energia, la riluttanza dei governi locali a cedere il controllo sulle aziende autonome nei trasporti e nelle utilities, l’assenza di mobilità nel pubblico impiego. Tutte queste proposte sembrano una follia, nel senso che sono lontane anni luce dall’agenda dei due schieramenti politici. C’è una distanza abissale tra la realtà economica e quella politica. Ma la realtà economica non cambierà, neanche negli anni a venire. Quanti anni di stagnazione o recessione dovranno passare prima che cambi la realtà politica?