Fatti e misfatti di Claudio Abate, maestro della fotografia prestato all’arte (sua e degli altri)

La febbre ritornava sempre. Anzi la notte raggiungeva i 40°, lasciandolo in un bagno di sudore ogni qual volta scendeva bruscamente. Lui, che non si fermava mai, fu costretto a mettersi a letto. La sua camera, allora, era sistemata sul soppalco dello studio fotografico di San Lorenzo, dove lavorava e abitava. Un posto famoso a Roma perché Claudio Abate, il malato, era uno molto considerato nel mondo dell’arte. Io gli avevo detto che non era il caso di fare avanti e indietro fra Roma e Mosca (era inverno) perché temevo che avesse una pleurite fibrinosa. Ma lui, tosto com’era e com’è, non ci aveva creduto, anche perché una lastra fatta in ospedale non aveva dimostrato niente (capita in quelle forme di pleurite secca). Una radiografia del resto vale sempre di più dell’opinione di un medico (specie per un fotografo). E poi l’impegno con Sprovieri, gallerista storico di Piazza del Popolo, era quello di ultimare un ampio servizio sugli studi degli artisti moscoviti, subito dopo la caduta del colosso sovietico. Risultato: Claudio Abate, amico mio, ritornò con una broncopolmonite bilaterale da paura che, se non mi sbrigavo a rinchiuderlo in casa (non ci fu verso di farlo ricoverare) e ad inondarlo di antibiotici, non ne staremmo qui a parlare, se non “alla memoria”.
Guarì presto e bene anche perché in vita sua l’unica medicina che non si era fatto mancare era il Johnnie Walker and rox, che non risulta sviluppi resistenza agli antibiotici. Da quell’esperienza non proprio piacevole Claudio uscì fuori più pimpante che mai. Anzi mi ricordo che nel periodo della convalescenza mi disse che non si era mai sentito così bene e così forte (penso proprio a causa di quel breve periodo di vita riguardata cui fu costretto in quella circostanza, una cosa a cui non era abituato). Per Claudio, infatti, tirare tardi la notte facendo il giro dei bar del centro per bere, parlare di La grande rapina delle immagini lavoro, di arte e di donne (non solo parlarne evidentemente) era normale. Il fatto era che, mentre gli altri suoi diciamo così “compagni di conversazione” la mattina si alzavano tardi (o non si alzavano proprio fino al pomeriggio), lui alle dieci al massimo era già al lavoro.
Il lavoro per Claudio Abate era cominciato presto, a 12 anni, quando suo padre lo portò nel laboratorio di un fotografo, Michelangelo Como, che gli fornì i primi rudimenti del mestiere. Il posto si trovava a Via Margutta, dove Claudio era nato nella casa studio del padre pittore. Io li ho visti alcuni ritratti del padre ed ho avuto modo di capire che il talento, un po’ almeno, lo aveva ereditato da lui. Solo che Claudio ai pennelli preferì la macchina fotografica, la Laica, non appena se la potè permettere. Cosa che capiterà presto, molto presto visto che a 15 anni si mise in proprio allestendo un suo studio in quello che era stato del padre. Erano i primi anni ’60 e a Roma si respirava il clima ell’avanguardia, dopo le scosse vitali che avevano ercorso la città alla fine della guerra. In arte le vicende dell’Astrattismo degli anni Cinquanta non avevano ancora cessato di agitare le acque; Burri era già era esploso, anche se in pochi se ne erano accorti, e si preparava la storia agitata e dolorosa della Suola di Piazza del Popolo. Ma nella zona del Tridente a Roma si respiravano ancora i profumi della Scuola Romana. Mafai (nonostante il carattere) era stimato da tutti, anche dagli astrattisti che con lui avevano frequentato per anni l’Osteria del Menghi in via Flaminia. Claudio in quel periodo gravido di eventi mangiava pane e arte. Uscendo da casa era facile per lui incontrare De Chirico (lo ritrarrà in seguito in una memorabile foto davanti alla installazione di Gino De Dominicis alla Biennale del ’72, quella del mongoloide). O Fellini, sempre curioso e gentile. «Un giorno o l’altro farai il manifesto di un mio film» – soleva ripetergli il grande regista – quando Abate era ancora praticamente un ragazzo.
Che fosse bravo, ma bravo veramente, lo avevano capito subito tutti sebbene fossero tempi in cui la fotografia (Vanessa Beecrof era di là da venire) non aveva ancora i consensi entusiastici di oggi. Grazie a questa diffusa stima, ebbe la soddisfazione di partecipare alla Biennale giovani di Parigi a soli 25 anni. Verranno poi gli altri riconoscimenti, senza che mai nessuno gli abbia regalato niente. La Biennale di Venezia di Achille Bonito Oliva, la grande personale “Atelier” di Villa Medici nel 2001, l’intervento aereo (grandi foto sospese) al Macro di Roma del 2002. I libri importanti su Beuys, Kiefer e Garry Hill. Tanto per citare le cose più importanti. Strada facendo era stato allievo del grande Erich Lessing (Agenzia Magnum) e aveva lavorato per “Play Boy”. Non si contano le collaborazioni, i viaggi, i sodalizi con artisti italiani e non. Schifano, Festa (che poco prima di morire gli regalò una piccola tela romantica che non posso scordare), Angeli, Pascali, Kounellis, Mattiacci, Carla Accardi tanto per fare alcuni nomi. E poi Twombly, Beuys (dei cui lavori fece delle foto capolavoro), Gilbert e George (famoso fu il viaggio in Cina che fece con loro). Senza contare il quotidiano sodalizio con gli artisti di via degli Ausoni, quelli della Nuova Scuola Romana, di cui ha frequentato gli studi, documentato i lavori con rara perizia e conosciuto la capacità di resistergli nel suo gioco di carte preferito: la scopetta, celebrata come un rito nella trattoria di “Pommidoro” a piazza dei Sanniti.
Un percorso senza soste in cui alla velocità di esecuzione (Claudio si autodefinisce il “pronto soccorso dell’arte”) non ha mai fatto difetto la qualità. Una qualità frutto dell’esperienza, certo, ma anche di un talento naturale formidabile. E’ un piacere vedere questo artista trafficare con i suoi strumenti del mestiere, con o senza assistenti, a caccia delle immagini giuste (le sue o quelle di altri artisti) nel suo studio o fuori di esso. Tutto sembra semplice per lui. Muoversi senza fatica come in una danza. Salire o scendere da una sedia. Accendere le lampade. Cercare l’angolo e soprattutto la luce più giusta. Ecco, la luce e l’ombra sono per Abate gli strumenti da scasso di una rapina che non fallisce mai perché riporta ogni volta, dal tempo e dallo spazio, una refurtiva di immagini preziosa, che delle opere d’arte e dell’ambiente coglie i tratti essenziali.
Se non fosse che l’atmosfera che vogliamo evocare è ironica e “romana”, come si conviene quando si scrive di un figlio autentico di questa città, si potrebbe azzardare che Claudio, senza saperlo, opera un processo di eidetica riduzione della realtà. Non una banale rappresentazione, quindi, ma un’investigazione sull’essenziale.
Senza scomodare il luminismo di Caravaggio o altri eruditi riferimenti, ci sembra di poter dire che con la luce e con le ombre egli sia in grado di tirare fuori le immagini come tappi di bottiglia, restituendo delle cose il midollo, la parte più profonda. Che poi la, reiterata consuetudine all’antiretorica, marpiona di chi l’arte la vive non solo la domenica ma ogni giorno, si tolga ogni tanto la soddisfazione dello scherzo sagace (osservate la foto riprodotta in questa pagina) o della digressione concettuale (ci vengono in mente le immagini delle sue enormi
Forchette volanti, o dell’”Ultima cena” che annuisce a Spoerri) è cosa che illustra la vitalità della sua cultura visiva e artistica. Una visione espressa con semplicità e senza prosopopea, come si conviene a uno che ha iniziato a lavorare a 12 anni.