Fate qualcosa di sinistra. Non è vietato

Non si poteva andare in modo peggiore alle elezioni. Il sistema elettorale ha reso ancora più forti le probabilità di una vittoria del centro-destra, e una sua affermazione può avere durata e conseguenze più pesanti che nel 1994. Il centro-destra rappresenta una spinta sociale e culturale che la sinistra non ha contrastato, e talvolta ha perfino alimentato, e il suo schieramento si è ricomposto mentre sinistra e centro-sinistra sono divisi. Inoltre alcune scelte del centro-sinistra, come la guerra e la politica economica, hanno deluso dando spazio all’astensionismo.
Per vincere, il centro-sinistra avrebbe dovuto ricomporre la rottura con Rifondazione, costruendo almeno alcuni punti programmatici comuni e garantendo un sistema elettorale che permettesse di sommare i voti dell’Ulivo e quelli di Rifondazione. Se non appariva possibile un accordo di governo, dati i termini della rottura e le attuali posizioni delle parti, non era impossibile un’intesa elettorale (facendo uso del ‘doppio voto’ offerto dal sistema misto) su alcuni elementi di programma. Con la decisione di presentarsi alla Camera solo nel comparto proporzionale, Rifondazione esprimeva un orientamento positivo; se una qualche convergenza programmatica avesse preso corpo, tale ‘desistenza unilaterale’ avrebbe potuto diventare campagna attiva per un voto ‘contro la destra’. Questa proposta la «rivista» ha avanzato già da alcuni mesi. Essa si è incagliata sulla legge elettorale per il Senato, che non permette il doppio voto e impone di presentare i propri candidati nei collegi uninominali dai quali si ricavano i voti per concorrere all’assegnazione dei seggi riservati al proporzionale (inoltre i resti possono essere utilizzati in un collegio regionale, e non nazionale, e si disperdono facilmente).
Ora, Rifondazione aveva ogni ragione nel rifiutare di scomparire in una delle due Camere (anche se, sia pure concedendo qualcosa all’astrazione, non è necessario per questo essere presenti in tutte le regioni). Ma i nodi si sono aggrovigliati per responsabilità primaria dell’Ulivo. Occorreva cambiare la legge elettorale muovendosi con determinazione fin dal giorno dopo il referendum; il che – non a caso – non è avvenuto. L’insorgere di nuovi problemi offriva l’occasione all’Ulivo di prendere qualche posizione più avanzata, ristabilendo almeno un dialogo. Un’iniziativa almeno non apertamente in contrasto con la tradizionale attenzione dell’Italia alle ragioni dei palestinesi, una riflessione sulla guerra nel Kosovo e sul modo di stare nella Nato dopo lo scandalo dell’uranio impoverito; le posizioni della Confindustria sulla contrattazione, il ripresentarsi di una questione salariale, la crisi della concertazione, suggerivano una correzione di rotta, che in ogni caso la stessa Cgil sarà costretta a prendere in seria considerazione. Anche il bilancio delle privatizzazioni, i disastri ambientali, alcune tendenze degenerative del federalismo sono state in questi mesi occasioni cruciali per una riapertura di dialogo. Ma su tutti questi punti il governo e la maggioranza di centro-sinistra si sono mossi in una direzione contraria a quella che avrebbe favorito una convergenza a sinistra. Unica eccezione l’abolizione graduale dei ticket sulla Sanità.
Sembra dunque fatale che le sinistre e il centrosinistra vadano alle elezioni in modi contraddittori: alla Camera una desistenza unilaterale di Rc sui collegi uninominali, ma in un clima di tensione che renderà molto difficile a larga parte dei suoi elettori di votare il candidato dell’Ulivo; e al Senato con una presenza di Rc in tutti i collegi e un aspro rimpallo di responsabilità, che lascerà segni pesanti nel futuro.
Non spetta a questa «rivista» riaprire una riflessione e una trattativa: non siamo riusciti a farci ascoltare quando c’era ancora tempo. Ma vale la pena di riflettere se questa impasse fosse inevitabile, e come si dovrà evitarla nel futuro. È evidente che il punto dirimente sta nell’individuare alcuni obiettivi comuni, importanti, ambiziosi e perseguibili dall’insieme di una sinistra che non abbia rinunciato a essere tale. Se non c’è qualche volontà e spazio nel merito, su ogni scadenza tattica, per quanto ci si sforzi di ragionare, si perderanno occasioni e si sarà trascinati alla deriva. Riflettervi fin d’ora non è accademia: può ridurre il furore della polemica elettorale e impostare le premesse per l’avvenire. (r.r.)

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Ha colpito tutti ed è fin oggetto dei lazzi della satira la scarsa consistenza dei programmi elettorali delle due coalizioni. E l’assenza, anzi la dichiarata impossibilità, ancor meno che di un programma, di un sentire comune dello schieramento di sinistra e, in esso, fra l’Ulivo e Rifondazione. La questione va oltre il programma elettorale, si ripresenterà all’indomani dell’eventuale vittoria o sconfitta e rappresenta il nodo più grave di un’eventuale alternanza. La radice ne è chiara, sta nell’opposta collocazione dell’Ulivo e di Rc nei confronti della spinta liberista che, iniziata negli anni ’70, ha pervaso l’Europa negli anni ’90 del secolo scorso. Tanto che parla di ‘due sinistre’ chi, come me, su questo vede il discrimine fra centro-sinistra e Rc: dare tutta la libertà al capitale e al mercato, o subordinare ambedue ad alcuni limiti e fini decisi dalla sfera politica.
La prima scelta, dominante nelle destre, è diventata negli anni ’90 propria anche delle ex socialdemocrazie, e in Italia anche dell’ex Pci, poi Pds e Ds. Fra Ds e il centro-destra le distinzioni sarebbero politiche, istituzionali e di valori, non riguarderebbero il modo di produzione e di distribuzione; è del resto su questa comunità di prospettiva che si basa l’alternanza e si spiega la tattica molle praticata dall’opposizione, sempre in cerca di qualche accordo trasversale.
La sinistra radicale, in Italia Rifondazione e vari movimenti non istituzionalizzati, si oppone invece al liberismo. Spesso anzi trascolorando nello slogan ‘siamo contro la globalizzazione’ – formula vaga che Marx definirebbe reazionaria come ogni resistenza all’espansione del capitale in nome di strutture più arcaiche. Mentre sarebbe del tutto pertinente che essa denunciasse la cancellazione della conflittualità fra gli agenti sociali – capitale e lavoro – che il liberismo nega mentre continua più che mai a esprimerla. Ma su questo la sinistra critica è spesso curiosa. Gran parte di essa declama assieme la vittoria mondiale del capitale e la decadenza di ogni legittimità del movimento operaio; vedendo la mutazione di alcune forme del rapporto fra le parti sociali, teorizza se non la loro scomparsa o omologazione, una riduzione della loro conflittualità in grazia d’una crescita accelerata, che ridurrebbe in termini assoluti il ventaglio delle disuguaglianze, e degli spazi di autonomia individuale che l’organizzazione postfordista del lavoro consentirebbe diversamente dal sistema fordista. Sta avvenendo uno spostamento di paradigmi culturali: il modo di produzione sarebbe definito dalle forme di organizzazione del lavoro invece che dalla proprietà-non proprietà dei mezzi di produzione e dal governo-non governo delle decisioni.
Un’altra parte, che si definisce antagonista, inclina a uno svuotamento del conflitto sociale, che sarebbe stato enfatizzato rispetto ad altre relazioni interpersonali o di gruppo o di sesso o di etnia o fra civiltà e natura; questo sarebbe stato il difetto capitale del movimento operaio marxista, che avrebbe prodotto una ipertrofia del ‘sociale’, specifica del Novecento, a scapito della complessità dell’umano e dell’idea di libertà. Fino a indurre – questa è la tesi più recente di Marco Revelli 1 – un totalitarismo del lavoro non meno devastante dei totalitarismi del superuomo o della razza. Un analogo spostamento del conflitto fuori del rapporto di produzione è compiuto da gran parte della critica femminista, per esempio dalla ‘Libreria delle Donne’ 2. Ne consegue – specie nel popolo di Seattle – l’inclinazione a spostare tutte le forze verso l’organizzazione dal basso di una produzione minore, spesso ecologica, e di una distribuzione equa e solidale, esterne al mercato capitalistico e in grado di governarsi in autonomia e tessere una rete di mutui servizi e consumi materiali o immateriali.
Al di là delle intenzioni, che si vogliono alternative o antagoniste, questi frammenti di società o controsocietà costituiscono se non un accomodamento, un sistema di non belligeranza, o quanto meno di belligeranza solo simbolica, con le istituzioni del liberismo.
Su questo processo, che ha una storia interessante e non univoca, varrà la pena di tornare. Intanto la strategia del centro-destra si dispiega brutalmente sul lessico e sui terreni della politica che si sono strutturati attorno al movimento operaio del Novecento. La destra e il capitale non esitano ad affermarla e battersi metro per metro per la piena liberalizzazione dei movimenti del capitale e per la riduzione totale del lavoro a merce, abbattendone ogni configurazione di diritto assunta in Europa dalla metà del secolo scorso. Ne deriva una ideologia totalizzante, l’americanismo come avanguardia politico/sociale, la costituzione degli Usa in ‘impero’ liberale e pacifico perché la priorità data allo scambio lo renderebbe esente dai vizi estremi dell’Europa, insomma naturaliter antitotalitario. Anche la proiezione del principio di concorrenza in un’etica generale dei rapporti 3 – peraltro diffusa ben al di là della destra – è una conseguenza del primato ordinatore attribuito al modo capitalistico di produzione.
Non che l’assunzione di questo principio avvenga senza qualche precauzione: gli squilibri mondiali sono evidenti. Ma la funzione riequilibratrice e antiestremista del mercato produrrebbe nel medio termine risultati di perequazione mondiale, non egualitari (sarebbe un guaio), ma caratterizzati da disuguaglianze dinamiche e non insostenibili. Nella realtà finora il dominio del capitale si estende assieme agli squilibri e alla precarietà della forza di lavoro 4. E malgrado l’enfasi posta sugli esiti parzialmente liberatori del postfordismo, si divarica la condizione umana sia su scala planetaria sia all’interno delle società dominanti.

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Tuttavia se non solo la destra, ma neanche la sinistra moderata né gran parte della sinistra radicale (certo quella movimentista) vedono possibile – al di là di qualche sfogo verbale – un rivoluzionamento del modo di produzione capitalistico, non per questo auspicano una correzione riformatrice del suo assetto liberista. Se mai, come si è accennato, la sinistra radicale concepisce una guerriglia senz’armi che consenta l’instaurazione di zone o segmenti liberati e autonomi.
È un paradosso degli ultimi trent’anni. L’impossibilità d’un riformismo fu teorizzata anche da parte di alcuni di noi tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70, perché la vastità del movimento di trasformazione pareva rendere imminente una destabilizzazione degli assetti capitalistici almeno in alcune parti del pianeta, o una trasformazione molecolare della società tale da mutarne il tessuto e invertire il rapporto di forza con le istituzioni e la proprietà capitalistica. Una forma di compromesso riformista sarebbe apparso un arretramento, ammesso che la classe dominante fosse scesa ad accettarlo. In realtà questa, nel ripiegare del movimento, ha proceduto prima a reprimerlo e poi a riordinare il terreno senza più mediazioni, e sarebbe da analizzare se eque o no, di una qualche forma di ‘rivoluzione passiva’.
Sta di fatto che con gli anni ’80, caduta ogni ipotesi rivoluzionaria o simile, anche qualsiasi intervento correttivo di tipo keynesiano non aveva finito di essere bombardato da sinistra che veniva attaccato da destra: l’intervento dello Stato nell’economia fu deliberatamente ridotto (e negli Usa limitato a garantire perlopiù un volano di spesa militare allo sviluppo) prima con la linea Thatcher, poi – caduta l’Unione Sovietica – con l’avvento ai governi europei delle diverse socialdemocrazie. L’intervento pubblico è da allora considerato deformante del corretto processo economico, mentre le compensazioni alle disuguaglianze finora offerte dallo Stato sociale sono state giudicate e marginalizzate, da un lato, come insufficienti (avrebbero sostenuto soltanto il ‘maschio adulto garantito’), dall’altro come lassiste (tali da indurre il medesimo all’inerzia). In Italia inoltre, il deficit pauroso dei conti pubblici e lo scandalo della corruzione hanno giocato un ruolo decisivo nella riduzione della spesa pubblica, e nella devoluzione al mercato della produzione, della distribuzione e – questa è oggi la tendenza – di servizi pubblici già considerati essenziali.
Ma su questo altre volte si è detto. La domanda suggerita dal profilo programmatico dei due fronti che concorrono alle elezioni politiche è se i rapporti di forza sul piano nazionale e mondiale siano tali da non consentire nessuna forma di correzione al sistema dominante. E quindi nessun margine per il mantenimento o l’aggiornamento di una identità sociale europea che continui a differenziare il continente da una provincia del mondo globale, perimetrata da una Banca centrale e una moneta, e percorsa dai sussulti residuali degli Stati nazione. Se insomma alla richiesta morettiana a D’Alema: – Di’ qualcosa di sinistra! -, la risposta sia ormai: – Non posso.

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Un’analisi appena ravvicinata dimostra che non è così. La dipendenza dall’impero americano e l’ubbidienza a una società di mercato sono tuttora più una scelta che un destino.
A cominciare dall’alleanza militare e dagli obblighi di schieramento che ne conseguono. Il governo di centro-sinistra ha confermato nel corso della guerra del Kosovo l’appartenenza alla Nato (aprile del 1999) quando questa, nel suo cinquantesimo anniversario, ne annunciava il perdurare mutando in parte i propri fini, cioè allargando i suoi compiti dalla difesa dell’area occidentale rispetto alla superpotenza sovietica in difesa anche preventiva di un più indefinito ‘blocco degli interessi occidentali’, aprendo anche un varco all’uso dell’atomica. Questa scelta è stata, sotto il profilo giuridico, discutibile perché se, come ricordò allora il presidente Scalfaro, pacta sunt servanda, quando i fini del contratto e i suoi termini mutano, il patto va ridiscusso, cosa che non è avvenuta né nel corso delle operazioni belliche né dopo. Né il dossier Nato, né quello balcanico, sono stati sottoposti a discussione né nel Parlamento né nel paese: spetterà agli storici perfino di decidere se l’Italia abbia partecipato o no a una guerra, mai dichiarata. Così come non è stato oggetto di discussione formalizzata nei Parlamenti, ma di dichiarazioni frammentarie sparse nei documenti degli organismi europei, la costituzione di un esercito europeo e, se sì, con quale fine, limite, spesa e rapporto con la Nato. Considerato che la Carta dell’Onu e la Costituzione italiana dichiarano illecito il ricorso a una guerra non strettamente difensiva, nessun vincolo dirimente impedirebbe – anzi – alla o alle sinistre una revisione dell’intera questione. Ma nulla è messo in atto, e l’alternativa rimane fra Rc (uscire dalla Nato) e il restarvi senza condizioni, che è la linea delle sinistre moderate. Insomma si tratta d’un muoversi parallelo più che opporsi di posizioni che non danno luogo ad alcuna politica nazionale neanche sui terreni che erano tradizionali di un intervento italiano (Medio Oriente e Mediterraneo). L’afasia della sinistra è manifesta: contro chi la Nato si difende? dai paesi terzi dotati di atomica, quali e perché? da scontri di civiltà incomunicanti e tendenzialmente fondamentaliste secondo le ipotesi di Samuel Huntington?
A questa paralisi non costringe una incoercibile pressione internazionale. Si può dubitare che gli Stati Uniti non tornino a esitare sull’ingerenza militare che precedette e seguì il crollo della potenza sovietica 5. L’amministrazione Bush già accenna a un riorientamento dell’intervento americano, come è nella tradizione repubblicana. Il meno che si possa dire è che la volontà di caratterizzazione pacifica dell’Europa o di una qualche alternativa strategica sia nelle zone di conflitto, sia nell’immenso invaso dell’Est, è evanescente: il continente sollecita l’intervento americano più che subirlo. E questo sembra doversi più che al comando altrui a una incertezza identitaria nostra, come se con il venir meno dell’Urss anche una ragione dell’Europa sembrasse perduta; il che non è l’ultimo dei paradossi, e il vero indice dell’egemonia culturale d’oltreatlantico, nelle sue forme più fruste come in Fukujama. Ne sono anche segno le continue messe in guardia da parte della sinistra moderata contro l’antiamericanismo, che mal celerebbe nazionalismi vergognosi se non tentazioni totalitarie, e la continua ammissione di un deficit di idee – ‘non abbiamo idee’ – che, venendo perlopiù da chi qualche potere lo detiene, funge più che altro da sbarramento a ipotesi riformiste considerate, più ancora che obsolete, pericolosamente controcorrente.
Gli spazi d’una alternativa antiliberista sono aperti anche sul terreno sociale. I patti dell’Unione Europea, a cominciare da Maastricht e dal Patto di stabilità, sono imperativi per quanto riguarda i bilanci pubblici ai fini del consolidamento della moneta comune, la libera circolazione dei capitali, il sistema della concorrenza, che vieta sia le posizioni di assoluto monopolio, sia le situazioni di dumping. Ma differentemente da quanto si dichiara, nessun vincolo se non relativo all’equilibrio di bilancio è messo alla spesa sociale, che infatti resta diversa nei diversi paesi dell’Unione: come ebbe a dire brutalmente Prodi – se il deficit resta nella norma, a me è indifferente se l’equilibrio è garantito dalla riduzione a zero della spesa sociale o da una severa tassazione. Il che non impedisce alla Commissione di insistere politicamente per la riduzione della spesa sociale.
Questo è il punto più evidente del ripiegamento del centro-sinistra: tutta la discussione in questi anni è stretta fra l’impossibilità di riduzione drastica della spesa pubblica senza dar luogo alla famosa ‘frattura sociale’, e la pressante richiesta di detassazione, soprattutto da parte delle aziende, cui fa e farà da freno per anni l’elevato indebitamento del paese. Le aziende lo sanno e siccome vorrebbero un utile più sicuro, cercano di ottenerlo sul versante della riduzione del costo del lavoro, non solo cercando di abolire la contrattazione collettiva e i vincoli ai licenziamenti, ma suggerendo al governo molteplici tentativi di dumping, abbozzati sia da Treu sia da Bassolino e puniti dall’Unione. Altrettanto eloquente è il tema delle pensioni: si chiede dal Fmi, l’Ue e la Confindustra, che il montante complessivo a carico della fiscalità generale venga ridotto o portando tutte le pensioni al sistema contributivo, o spostandole sulle assicurazioni dei singoli (cui peraltro il padronato esita a mettere a disposizione quel salario rimandato che è l’accumulo del trattamento di fine rapporto). In questi termini, il problema resta foriero di tensioni sociali, e tanto più in quanto per quasi la metà le pensioni sono bassissime, inferiori ai dieci milioni annui, tali da non permettere un secondo sistema assicurativo (il che rivela la ristrettezza della base lavorativa, la vastità del lavoro agricolo, i bassi compensi dei lavori agricoli e poi di quelli servili, la saltuarietà della carriera lavorativa), mentre circa mezzo milione di pensionati sui sedici milioni complessivi gode d’una pensione di almeno 70.000.000 l’anno, di molto superiore al salario medio. Ma se un taglio come quello richiesto dal Fmi o dall’Eurofin è impossibile socialmente, la sinistra moderata considera impossibile politicamente una misura che, fissando un tetto alle pensioni massime, ridurrebbe l’importo complessivo della spesa. Tuttavia è una misura che nessun vincolo comunitario proibirebbe. Al dunque vengono sul tappeto le scelte, le ideologie, le timidezze delle sinistre.
Alla stessa stregua le disposizioni europee a favore della concorrenza possono parerci roba del secolo scorso ma non sono tali da impedire una politica né dei grandi lavori continentali, che ridurrebbe gli inoccupati oltre che costituire un collante identitario, ma cui si è opposta fin dagli inizi la Germania, né impedirebbero politiche pubbliche dell’occupazione, e financo produzioni pubbliche all’interno dei singoli Stati – perché l’intera tematica dell’occupazione è lasciata ai singoli paesi, l’Europa proponendosi obiettivi comuni solo in termini di formazione.
In breve, i margini per una politica riformatrice o per una rielaborazione delle scelte macroeconomiche o di deficit spending keynesiane non sono azzerati dai vincoli internazionali, anche se è vero che vi pongono alcuni limiti. Decide il rapporto di forza fra Stato e padronato, in presenza d’una liberalizzazione dei capitali e della loro possibilità di delocalizzazione verso paesi extracomunitari dove un dumping non può essere vietato. Ma questo è un terreno squisitamente politico, giacché a trattenere i capitali può essere non soltanto una politica di basso costo del lavoro, come si riconosce ma non si pratica. E infatti l’Europa appare un continente dove (troppo) larghe resterebbero le possibilità della mano pubblica. Se la sinistra non le usa, è per un complesso di inferiorità, bizzarramente analogo a quello tradizionale delle imprese nostrane, che mirano a una crescita senza rischi, di scarso respiro e facili guadagni. La fine del secolo non ha mutato il volto del capitalismo italiano, la sua scarsa audacia, la poca disponibilità alla contrattazione e perfino alla più soave delle concertazioni (si vedano le furie recenti dell’attuale presidente della Confindustria D’Amato), il ricorso permanente alla protezione di Stato (che svergognatamente si attua attraverso le rottamazioni e le defiscalizzazioni, per un totale di erogazioni all’impresa che potrebbero dare luogo a consistenti investimenti pubblici o financo a misure di reddito garantito).
In altre parole le scelte di investimento e spesa sono ‘politiche’, orientabili, e si determinano come di destra o di sinistra per le conseguenze che comportano, per la formazione di blocchi sociali di consenso o contrasto al governo che le attua. Non dovrebbe esser questo il senso di un bipolarismo socialmente leggibile? Ma la sinistra moderata non ha più una griglia interpretativa conflittuale, ed è questo che la svuota, la induce a rincorrere la destra, e impedisce ogni dialogo con Rifondazione. Cui non è difficile rimproverare, in questo stato di cose (come alla parte anche più combattiva del sindacato), di limitarsi alla resistenza più che di elaborare una proposta almeno altrettanto realistica quanto alternativa.
Quel che fa riflettere è che la ‘demagogia sociale’ del centrodestra e il ‘silenzio sociale’ del centro-sinistra indicano non un vuoto, ma la propensione di ambedue gli schieramenti a spostare sull’imprenditoria e sul mercato la crescita e i suoi modi, affidando loro al buio questioni antiche e drammatiche come il Mezzogiorno – irrisolta malgrado cambi di secoli e, si dice, di civiltà – o tremende come l’occupazione. Il centro-sinistra non si vuole riformatore; ha perfino mutato etimologia e senso della parola per mantenere a ‘riforma’ solo il significato di modificazione del sistema istituzionale o di una sua parte – interpretazione esclusivamente italiana. E questo per ideologia, non per impossibilità. La cosa è ancora più evidente là dove le riforme non implicano un aumento smisurato di spesa, cioè la scuola e la sanità, che costano non meno alla fiscalità pubblica là dove il sistema è privatistico e non universalistico (come negli Stati Uniti).

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Dire qualcosa di sinistra è dunque possibile. Qualcosa di riformatore. Qualcosa di antiliberista. In quanto il liberismo è l’espressione del capitale in questa fase anche, in certa misura, qualcosa di ‘anticapitalista’. E infatti non va senza scontri fra le parti sociali, senza qualche morto e ferito. La sua leva è culturale e politica, e probabilmente – qui non è possibile accennarlo – comporta davvero un attraversamento ideale del Novecento o forse della modernità. In ogni caso implica che la politica non abdichi, dia un indirizzo e i mezzi per realizzarlo, e qui si potrebbe riannodare un dialogo fra le sinistre, bloccato finché quelle moderate rifiutano di uscire dal fatalismo che le paralizza dopo il 1989.
Insisterei sulle sinistre, perché i limiti intrinseci, e non solo sociali, del liberismo stanno già emergendo nella incrinatura della crescita americana, nelle rumorose crisi finanziarie, negli scoppiettii di bolle speculative che dovrebbero far riflettere sul rapporto fra economia reale e virtuale, e fin nello scarso trionfalismo della riunione recente di Davos, quasi sommersa mediaticamente da Porto Alegre.
L’inizio del secolo si annuncia più aperto di quanto non apparisse la sua fine.

note: 1 M. Revelli, Oltre il Novecento. Le politiche, le ideologie, le insidie del lavoro, Einaudi, 2001, pp. 286, L. 28.000. 2 Cfr. per esempio L. Cigarini (a cura di), La rivoluzione inattesa, Pratiche, 1997, pp. 143, L. 20.000; e della stessa autrice e altri, i saggi sul Quaderno di «Democrazia e Diritto» dedicato a Lavoro: declino o metamorfosi? a cura di P. Barcellona, Franco Angeli, 2000, L. 40.000. 3 P. Ciocca, La nuova finanza in Italia, Cap. 9, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 301, L. 38.000. 4 Su questo la letteratura è inesauribile: basti ricordare i rapporti annuali dell’Onu sullo «Sviluppo umano», le Relazioni annuali più prudenti della Banca d’Italia. Per l’Italia, v. l’ultimo lavoro della Commissione scientifica di Rc ordinato da Vittorio Rieser (attualmente allegato alle bozze del programma elettorale, febbraio 2001). 5 Per il dossier Stati Uniti/Europa, vedi I. D. Mortellaro, I signori della guerra. La Nato verso il XXI secolo, Manifestolibri, 1999, pp.139, L. 16.000.