Riecco spuntare le parole magiche di consumata ambiguità semantica che non abbiamo dimenticato dai tempi dei governi di centrosinistra. E’ Piero Fassino a promettercele di nuovo esordendo, nell’intervista al Corsera di giovedì, sulla necessità di una «modernizzazione» – termine già usato a suo tempo da Massimo D’Alema per indicare le scelte «liberiste temperate» allora di moda, che infauste risultarono alla comprensione dei lavoratori e di più larghe aree sociali; e infauste furono per il suo stesso governo, che cadde. Ora Piero Fassino raccoglie la bandiera caduta, non si sa se per difetto di memoria o intemerata protervia – ma si sarebbe inclini a optare per quest’ultima attitudine, visto che, nonostante i movimenti di contestazione di questi anni, il segretario dei Ds sostiene che tale «modernizzazione» è una «domanda che viene dall’Italia», e in un incontro a Roma con la stampa estera è riuscito a esprimere la propria confusione, il disordine simbolico e politico, affermando che nel voto «i cittadini hanno chiesto un radicale cambiamento nell’azione di governo».
Come interpretare «radicale»? Piero Fassino la dice così: flessibilità del lavoro, privatizzazioni – «la quota più grande l’abbiamo fatta noi, il centrodestra le ha fermate» – e dunque avanti con la liberalizzazione dei «servizi di pubblica utilità», ma bene anche, seppure in un secondo tempo, proseguire con la diminuzione delle tasse, la «riduzione dell’irpef». Bene anche all’iniziativa del «ponte di Messina» – sulla quale proprio Legambiente, e il suo presidente onorario, deputato della Margherita, Ermete Realacci, ha appena chiesto di fermarsi, dopo l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura di Roma.
Singolarmente, Piero Fassino sostiene le stesse opzioni del centrodestra, solo ammonendo che per Berlusconi sarebbero «fini a se stesse», mentre per l’Unione le medesime scelte si giustificherebbero per altro. Un sofisma incomprensibile, giacché il Cavaliere non è un estenuato esteta ma ha puntato su precisi poteri, e settori sociali, cui dedicare le sue «riforme». Dunque la domanda legittima è: ma dove vuole collocarsi l’Unione?
Una spia è sicuramente la «flessibilità buona» del lavoro evocata da Piero Fassino come uno degli obiettivi del futuro programma del Centrosinistra, una volta che fosse eventualmente al governo (ma i leader dell’Unione sembrano già convinti che governeranno sicuramente – una convinzione preventiva eccessiva, come insegna l’antica favola della pelle dell’orso).
Quel che si può dire dall’esperienza, è che difficilmente qualcuno si farà incantare dalle aggettivazioni: «flessibilità buona» non pare abbia nulla a che vedere con l’«ozio creativo» con cui cerca di tradurla l’associazione Managerzen, ( che per altro nel suo sito non si nasconde gli ostacoli all’eccedenza dei desideri; figuriamoci per chi non appartiene alla categoria dei manager).
Piero Fassino sostiene che la «flessibilità buona» del lavoro si può realizzare grazie a «ammortizzatori sociali» e «formazione», non che «sostegno al reddito». Proposizioni generiche, ci sembrano, e astratte.
In concreto, non pare in gioco la bassa «qualità» del lavoro che tanti giovani scontano nel buco nero del precariato. Anche quando hanno già una «formazione» elevata: tutte le indagini, infatti, dimostrano che pure i maschi più specializzati (e per le donne il dato è eclatante) vengono poco utilizzati dalle imprese italiane, e con la pretesa di un costo del lavoro irrisorio. Mentre per altri la «formazione» è solo un marchingegno a favore della aziende per pagare meno il lavoro – visto che per le mansioni richieste non servono più di poche settimane. A fronte di un dislivello crescente, fra l’Italia e altri paesi europei – sia di capacità culturali, che di brutali cifre di stipendi pagati. Fra l’altro, per spostare all’«esterno» i costi del lavoro, comne insegna l’ìesempio danese, occorrono ingenti risorse pubbliche: eppure Fassino vuole ridurre anche le tasse.
Ieri su Liberazione, Piero Sansonetti ha criticato Fassino, ma con una speranza di «sinistra» nell’Unione che, forse per scetticismo, non si riesce a condividere.