Fassino e il fardello della modernizzazione

Questo di Piero Fassino è un libro interessante e autentico, scritto davvero con passione, quella profonda passione per la politica che ha sin qui contraddistinto tutta la vita dell’attuale segretario dei Ds. Sono pagine pensate, nelle quali si riflette un profilo culturale coerente, precisatosi, nel segno di una sostanziale continuità, in lunghi decenni di impegno militante. Quale sia il connotato di fondo è presto detto. Fassino dichiara senza remore la propria ispirazione socialdemocratica: di una socialdemocrazia – conviene precisare – peculiare, figlia della sconfitta del movimento operaio battuto dalla rivoluzione conservatrice reaganiano-thatcheriana. Per cui mai nel libro emerge, nemmeno in chiave problematica, la riflessione sulle responsabilità del capitalismo in ordine ai devastanti problemi politici, sociali, ambientali e persino morali che l’umanità si trova di fronte.
Ma veniamo ad alcuni snodi salienti della narrazione. Colpisce, in primo luogo, come in tutte le fasi dello scontro politico richiamate nel libro Fassino si sia collocato regolarmente su posizioni assai prossime a quelle dell’avversario. Un caso appare tra tutti paradigmatico. 1980, la mobilitazione della Flm contro i licenziamenti decisi dalla Fiat. La lotta si protrae per 35 lunghi giorni durante i quali Enrico Berlinguer è vicino agli operai in sciopero, che lo festeggiano ai cancelli di Mirafiori. Oggi Fassino ricorda e non lesina critiche. Gli appare sbagliata la posizione oltranzista dei lavoratori e del sindacato dei meccanici. Giudica errata anche la scelta del segretario del Pci che avalla quella lotta e non si pronuncia contro l’occupazione della fabbrica.
Sono pagine dure, come duro fu allora quello scontro. Vi è consegnata, in sintesi, la tesi portante del libro. Fassino non è critico di Berlinguer nell’intero arco della sua segreteria. Al contrario, ne condivide le scelte degli anni Settanta: il compromesso storico, l’opzione per la Nato, il governo di solidarietà nazionale, la condivisione della linea dell’Eur e dei sacrifici imboccata nel ’77 dalla Cgil di Luciano Lama. Il problema è però, ai suoi occhi, che quelle scelte non furono condotte sino in fondo: si tentennò, non si ebbe il coraggio di «assumere un compiuto profilo riformista di stampo socialdemocratico». Questo è il punto, assunto come un dogma. Poco o nulla rilevano i contraccolpi di quelle scelte strategiche: il disastro elettorale dell’80 (quando il Pci si fermò al 26%, otto punti in meno rispetto al ’75), il tracollo del Pds al primo test elettorale (16% nel ’92).
Ovvia, poste queste premesse, la requisitoria nei confronti dell’ultimo Berlinguer. Ovvia anche, benché non per questo meno sconcertante, la celebrazione di Bettino Craxi, nel quale Fassino scorge un lucido interprete di quella fase storica e politica. «Craxi interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica di stare al passo. Il Pci invece vede nei cambiamenti un’insidia, anziché un’opportunità». Tradotto in volgare: Craxi ha il merito di capire che la centralità operaia ha fatto il suo tempo, che il conflitto di classe è una patologia distruttiva, che la «modernizzazione» impone alla sinistra di riconoscere la centralità dell’impresa e di farsi carico delle «compatibilità» del capitalismo. Poco importano, ancora una volta, la dure repliche della storia: il dilagare della corruzione tra le file del Psi craxiano e la sconfitta storica della sinistra post-comunista che nei primi anni Novanta, gettata alle ortiche la cultura classista, assumerà su di sé il fardello della «modernizzazione» a suon di privatizzazioni, tagli del welfare, riforme istituzionali e leggi maggioritarie.
Fassino non si limita alla politica interna, il libro è ricco di riferimenti a questioni e vicende internazionali. Ma, giunti a questo punto, sarebbe temerario attendersi sorprese. Non ce n’è. Il socialismo reale è tutto un fallimento: ovviamente sui fallimenti delle socialdemocrazie al governo in Europa dagli anni Ottanta in poi (e tanto più sulle odierne porcherie di Blair) il silenzio è assoluto. Maastricht? Rose e fiori, peccato solo che il centrosinistra al governo non abbia completato la riforma delle pensioni e sia stato troppo timido con la flessibilità. E i milioni di disoccupati, i nuovi poveri, i bilanci terremotati delle famiglie? Inevitabili contraccolpi della modernità. Gli Stati Uniti? Un modello di democrazia, e pazienza per la dottrina della guerra preventiva e permanente (di cui invano si cercherebbe traccia). Israele? «Non possiamo non amar[lo]. Non possiamo non riconoscere Israele come una forte e libera democrazia»: dunque nessun problema di occupazione militare di territori altrui, di discriminazioni etniche, di violazioni di diritti umani. La perla è, naturalmente, la parte dedicata alla guerra nella ex-Jugoslavia. Fassino ci tiene a rivendicare un primato: «Nel governo italiano, i più determinati nell’auspicare un intervento militare siamo io e Andreatta». Poi, però, dà a Massimo quel che è di Massimo: «D’Alema rivela qui la sua parte migliore di uomo di stato: con freddezza e lucidità gestisce i rapporti interni dell’Ulivo e si fa apprezzare […] dai generali della Nato». E la distruzione della Zastava? La pulizia etnica ancora in corso contro il popolo serbo? La disoccupazione dilagante, l’uranio impoverito? Quisquilie, polvere impalpabile sotto il carro trionfale della Storia.
Non servono lunghi commenti né faticose interpretazioni. Fassino è onesto, non si maschera, non stempera le proprie convinzioni. Del resto, perché mai si dovrebbe volere occultare quanto si considera titolo di merito? Senonché il punto è proprio questo. Come mai non si avverte la problematicità di una metamorfosi ideologica e politica che ribalta di 180 gradi una lunga storia e impedisce qualsiasi presa di distanza dal neoliberismo, dall’attacco al lavoro e ai diritti sociali, dalle nuove guerre imperialiste? Questo libro è uno specchio della mutazione genetica subita dal Pci nel corso degli ultimi vent’anni e della cui portata è indice proprio la concezione della modernità di cui Fassino è entusiasta alfiere. Moderno non è il processo, potenzialmente rivoluzionario, di espansione della cittadinanza e di costruzione dell’universalità: moderna è la «razionalizzazione» del capitalismo, la controffensiva dei poteri forti (a mezzo di compressione dei salari e flessibilità, di tagli alla spesa e privatizzazioni) idonea a salvaguardare sufficienti margini di profitto. Non c’è metro migliore della devastazione prodottasi a sinistra nei due decenni alle nostre spalle.