«Faremo causa all’Eni per danni ambientali»

Ledum Azanur Mitee è un avvocato Ogoni, minoranza etnica del Delta del Niger. Amico e compagno di Ken Saro Wiwa, con lui ha condiviso il carcere e le lotte salvo poi essere prosciolto, è diventato presidente del Mosop dall’impiccagione di Wiwa il 10 novembre del 1995. Lo abbiamo avuto al telefono da Port Harcourt, capitale petrolifera della Nigeria, dove ha sede il movimento degli Ogoni.

Qual è la situazione oggi nel Delta?

La situazione è seria, ma non senza speranza. Avevamo avvertito che c’erano tutti i segnali. E la risposta del governo e delle società petrolifere ha portato a questo genere di azioni. Noi, che da sempre portiamo avanti una protesta non violenta, non abbiamo mai ricevuto risposte. Gli atti violenti, invece, sono gli unici che abbiamo mai ricevuto dei benefici. Chiaramente questo non aiuta la nostra causa. Questi sono soltanto dei criminali. Chi pensa – come il governo o le società petrolifere – di ottenere una pacificazione nel Delta con il denaro, che serve solo a comprare tempo, non fa che peggiorare le cose. Perché qui, quando sono presi degli ostaggi, sono chiesti dei riscatti che poi sono regolarmente pagati. E’ diventata quasi come un’industria a sé stante. Le voci da qui dicono che agenzie di sicurezza e governanti locali hanno le mani in pasta nell’affare. Anche perché, chi ci guadagna? Sicuramente non la popolazione locale. Chiedete quanto è aumentata la spesa in sicurezza dei governi degli Stati e chi poi prende questi soldi. Chiedete quanto spendono per la propria protezione le società petrolifere e per poi darli a chi? Chi beneficia dei contratti per l’importazione di armi e munizione che firma il nostro governo? C’è, evidentemente, l’interesse in alcuni settori affinché via sia un’escalation nelle tensioni. E la gente, che è presa tra due fuochi, non si diverte e arriva quasi ad esprimere simpatia per i militanti. Perché è la risposta del governo che li spinge a questo. Se l’esercito bombarda i villaggi, spara alla gente o arresta le persone indiscriminatamente, senza prendere di mira i veri criminali, è chiaro che venga meno l’obbligo di cooperare con le forze dell’ordine. E’ evidente come questo crei della frustrazione nelle popolazioni locali, ma, altrettanto ovviamente, non è che tutti siano violenti.

Qual è l’azione del Mosop in questo contesto e com’è cambiata negli anni?

Noi lavoriamo da sempre per un’altra Nigeria. Il nostro obiettivo è quello di fornire un’alternativa. Siamo sempre stati consapevoli che non avrebbero mai potuto ucciderci tutti. E che quelli che sarebbero venuti dopo, avrebbero portato avanti gli ideali dei nostri martiri. Senza però far venire meno la nostra scelta non violenta, in modo che questa diventasse un modello per il cambiamento. Confesso che però anche in me cresce sempre di più la frustrazione. Sono tra i fondatori del Mosop insieme a Ken Saro Wiwa. Sono stato arrestato, accusato e processato con lui. Eravamo in carcere insieme e ci sono tornato anche altre volte. Nel suo ultimo discorso dalla cella, Ken aveva ammonito che l’esito del processo del governo della Nigeria e della Shell contro di lui avrebbe condizionato gli anni a venire. Perché impiccando la scelta non violenta della popolazione, si è condannato il Delta del Niger alla guerra. La generazione dei nostri figli ha preso un’altra direzione perché ha visto che le nostre azioni sono state fallimentari. E si ritorna al solito ciclo della violenza. Il presidente Obasanjo ha detto che combatterà «la forza con la forza», e questo non aiuta, ma esacerba ulteriormente gli animi. E lo fa mandando avanti i militari, la cui lunga storia di violazioni e soprusi a danno della popolazione ha reso il nostro Paese tristemente famoso.

Sono cambiate, invece, le vostre richieste?

Non sono cambiate. Lottiamo perché chiediamo maggiore attenzione. Il petrolio che sgorga dalle nostre terre non contribuisce al nostro sviluppo e quindi chiediamo maggiori risorse. Chiediamo anche alle società petrolifere di trattarci in maniera più umana. Nelle terre Ogoni, ad esempio, da due settimane un oleodotto ha preso fuoco. Nessuno è andato a spegnere l’incendio e, oltre al danno ambientale, c’è anche un serio rischio per le persone. La Shell ci dice che non hanno le competenze per spegnere il fuoco e che devono far arrivare qualcuno dall’estero. Nei loro comunicati ufficiali, invece, affermano che le popolazioni locali non li farebbero avvicinare all’incendio. Vorremmo che la vita avesse ovunque lo stesso valore. Non vorremmo che le società adottassero degli standard diversi se operano in Europa o in Africa, soprattutto per quello che riguarda la tutela dell’ambiente.

In questo quadro, come si comporta l’Eni in Nigeria?

Mentre ti parlo sono a meno di dieci minuti dalla sede dell’Agip qui a Port Harcourt. E, siccome sono anche avvocato, ti posso anticipare che il mio studio sta lavorando ad una causa contro l’Eni da parte delle popolazioni dello Stato del Bayelsa. E tra due settimane saremo in tribunale. La storia riguarda la comunità di Biseni. Quando si cerca di estrarre il petrolio si usano dei prodotti chimici. Nel caso dell’Eni questi hanno finito per inquinare l’acqua dei fiumi dei Biseni. Questo significa che l’acqua potabile è diventata imbevibile e non è stato più possibile pescare. Lo scorso anno avevamo chiesto all’Agip di fare un’ispezione congiunta. Volevamo che fossero rimossi gli agenti chimici inquinanti e che la comunità fosse compensata. L’Eni è venuta con i suoi esperti e ha offerto in compensazione una cifra ridicola, sui 35 mila dollari, che è stata rifiutata perché stiamo parlando di almeno dieci ettari di territorio inquinato. E siccome hanno deciso di non riparare al danno che hanno causato adesso prenderemo le vie legali.