Falluja, strage di marines Usa

Ad appena un giorno di distanza dal roboante discorso di guerra di George W. Bush e dalla pubblicazione dell’opuscolo sulla Strategia della vittoria, gli Stati uniti hanno subìto una delle più pesanti perdite dall’inizio dell’invasione irachena e dal tormentato dopoguerra: dieci marines sono stati uccisi nella città di Falluja. I militari erano in missione di pattuglia a piedi e sono stati vittime dell’esplosione di un ordigno artigianale. L’episodio è avvenuto giovedì, ma è stato reso noto dal Comando generale interforze soltanto ieri, probabilmente per creare un minimo di distanza temporale dal discorso di Bush. Il presidente si è detto «addolorato» per la morte dei soldati e ha annunciato a breve un nuovo discorso sull’Iraq, concentrato questa volta «sull’aspetto economico e la ricostruzione», come ha spiegato il portavoce Scott McClellan. E ieri sera i sequestratori di quattro operatori umanitari occidentali rapiti sabato scorso hanno minacciato di ucciderli se entro l’otto dicembre non verrà rimesso in libertà un imprecisato numero di detenuti iracheni. Lo ha riferito la tv al Jazeera. La stessa emittente aveva diffuso tre giorni fa un video in cui un gruppo finora sconosciuto, le Brigate delle spade della verità, rivendicava il sequestro di quattro occidentali, definendoli «spie delle forze di occupazione». Si tratta dello statunitense James Fox, 54 anni, e di altri tre volontari dell’organizzazione non governativa Christian Peacemaker Teams: Norman Kember, 74 anni, britannico; James Loney, 41 anni, e Harmeet Singh Sooden, 32 anni, canadesi.

Intanto si incrina sempre più la tenuta della già raffazzonata coalizione dei volenterosi che affianca Washington nell’occupazione della Mesopotamia. La letalità della guerra, che ha finora causato circa 2.125 perdite militari americane e quasi 200 alleate (26 le italiane), è uno dei fattori della spinta al ritiro. Bulgaria ed Ucraina hanno già deciso e annunciato di volere riportare a casa, entro dicembre, i loro uomini che sono 1.250 complessivamente (rispettivamente 380, che verranno via a metà mese, e 876, che partiranno a fine anno). Altri paesi della coalizione, come Gran Bretagna, Australia, Polonia, Giappone e Corea del Sud, oltre che l’Italia, stanno valutando se, come e quando ridurre i loro contingenti, o darne per conclusa la missione. A Washington, in particolare al Pentagono, ci si interroga sull’impatto delle mosse degli alleati, che potrebbero, in un’ipotesi neppure estrema, dimezzare la presenza militare alleata in Iraq di qui alla metà del 2006.

Attualmente, gli Stati uniti hanno nel Paese quasi 160 mila uomini e i loro alleati poco più di 20 mila provenienti da 27 paesi – oltre 8000 le truppe britanniche, 2.800 quelle italiane, che costituiscono, oggi, il quarto contingente. In totale, 38 paesi hanno militarmente partecipato all’invasione o alla «stabilizzazione» dell’Iraq. Proprio ieri, il ministro della difesa italiano Antonio Martino, che la settimana scorsa ne ha discusso a Washington con il segretario alla difesa americano Donald Rumsfeld, ha confermato, parlando a Roma, che i tempi del ritiro dei militari italiani dall’Iraq saranno annunciati in anteprima al Parlamento. Per il Financial Times, Washington, con negoziati condotti dal dipartimento di stato, sta cercando di trasformare le presenze militari dei paesi che vogliono ritirarsi, in tutto o in parte, in presenze di altro tipo: missioni civili finalizzate, ad esempio, alla ricostruzione. Ma la linea della Casa bianca e del Pentagono è che la riduzione dell’apparato militare resta subordinata ai progressi delle forze di sicurezza irachene nella capacità di garantire da sole la stabilità del paese.

Un attesa quasi messianica accompagna il voto legislativo del 15 dicembre, che dovrà eleggere un parlamento stabile e un governo. Mentre il giorno fatidico si avvicina, si anima lo scontro politico. In un discorso che rischia di esacerbare il conflitto tra sciiti e sunniti uno dei leader del più potente partito sciita ha dichiarato ieri che la sua comunità dovrebbe occupare i posti chiave nel governo, in quanto maggioritaria nel paese. «Gli sciiti sono la maggioranza e quindi dovrebbero occupare gran parte dei posti nei ministeri e altro», ha detto, durante la preghiera del venerdì in una moschea della città santa sciita di Najaf, sheikh Dar al-Din al-Qubbanci, membro del gruppo dirigente dello Sciri (Supremo consiglio per la rivoluzione islamica in Iraq), uno dei maggiori partiti rappresentati nel governo iracheno appoggiato dagli Stati uniti. La minoranza araba sunnita, al potere ai tempi di Saddam Hussein, accusa gli sciiti e i kurdi, al potere dopo le elezioni del gennaio scorso, di averla esclusa dai posti di potere. Le tensioni settarie sono aumentate nelle scorse settimane dopo che le truppe statunitensi hanno scoperto più di 170 prigionieri sunniti rinchiusi in un bunker gestito dal ministero dell’interno controllato dagli sciiti. I detenuti mostravano segni di torture e maltrattamenti. Il governo smentisce le accuse e afferma di aver aperto un’inchiesta sulle denunce di abusi nella sua guerra contro la guerriglia, che ha ucciso miglia di membri delle forze dell’ordine e di civili con attacchi suicidi e attentati.