La storia del viaggio che due anni e mezzo fa portò Abu Omar, l’imam della moschea milanese di viale Jenner, da Milano al Cairo, è ricca di insegnamenti. Riassumiamo i fatti.
17 febbraio 2003. Poco dopo mezzogiorno, all’angolo tra via Guerzoni e viale Jenner (periferia nord del capoluogo lombardo), Nasr Osama Mustafa Hassan detto Abu Omar, un rifugiato politico egiziano da mesi nel mirino della procura e del Sismi, viene «intercettato» da due uomini che gli chiedono, in italiano, i documenti. Poco dopo si odono forti invocazioni di aiuto (questa volta in arabo), quindi il violento sbattere dei portelloni di un furgone posteggiato lì nei pressi. Il furgone parte subito a forte velocità verso Cormano. Da quel momento, per diversi giorni, di Abu Omar si perde ogni traccia. Sembra essersi volatilizzato. Le prime notizie giungono quando, l’unica testimone oculare dell’episodio, Rezk Merfat, viene identificata grazie all’intervento di alcuni dirigenti di comunità islamiche lombarde e parte come in Italia è ancora inevitabile in simili casi un’indagine della magistratura. Senonché l’inchiesta, affidata al pm Stefano D’Ambruoso, è subito archiviata. Per oltre un anno nessuno sembra interessarsi del caso, finché, nella primavera del 2004, le indagini non vengono affidate ad un altro magistrato, Armando Spataro, il quale affronta il caso con ben altra determinazione. Si scopre allora che ad aver rapito l’imam è un commando paramilitare della Cia (coordinato da Robert Seldom Lady, console americano a Milano di casa alla Digos e presso i nostri servizi segreti), con ogni probabilità coadiuvato da agenti italiani. E si viene a sapere anche che Abu Omar è stato prima portato (e torturato) in due basi americane (ad Aviano e a Ramstein, in Germania), poi trasferito a bordo di un aereo-fantasma al Cairo. Destinazione finale (e attuale luogo di prigionia): il carcere-Lager di Al Tora, centro nevralgico dell’universo concentrazionario della war against terrorism, famoso per la durezza delle condizioni di detenzione (celle minuscole senza finestre e coi pavimenti in ferro, cibo infestato da vermi, nessun contatto con l’esterno) e per il sistematico ricorso alla tortura (deprivazione del sonno, ipertensione della spina dorsale, scariche elettriche ai genitali, ecc.).
Sin qui i fatti, nudi e crudi, peraltro ormai noti. Diamo ora un’occhiata al contesto, indispensabile a capire. Abu Omar non è rimasto vittima di un complotto isolato. Il suo rapimento rientra in un programma varato dieci anni fa (da Clinton) e potenziato nel quadro della «guerra contro il terrorismo» scatenata dal governo americano dopo l’11 settembre. Denominato «restituzioni speciali» (extraordinary renditions), il programma prevede il «prelievo coatto» degli obiettivi (in particolare sospetti terroristi), ovunque essi si trovino, e la loro deportazione in Paesi che non vanno troppo per il sottile nelle tecniche di interrogatorio. Con le extraordinary renditions, in altri termini, gli Usa si arrogano il «diritto» (ammesso che questo termine abbia ancora un senso) di far uso della forza, a propria discrezione e senza limiti, anche sul territorio di altri Stati. Ovviamente si ignora il numero delle «restituzioni» sin qui compiute. Si parla di trecento, metà delle quali a beneficio di carceri egiziane. Ma sono mere congetture. Tutto è avvolto nel segreto, a cominciare dalla logistica (gli aerei con matricole false e continuamente cambiate, secondo i dettami della pirateria internazionale), dai luoghi di detenzione (spesso ospitati da navi militari Usa) e dalla sorte dei prigionieri.
Detto questo, vediamo di cogliere i principali risvolti di questo «caso», finalmente diventato di dominio pubblico e approdato (vedremo per quanti giorni ancora) alle prime pagine dei giornali.
Cominciamo dal ruolo dell’Italia, di cui si discute dopo l’indecente esibizione del ministro Giovanardi in Parlamento. Il governo ha scelto la via in apparenza più scaltra, quella di negare di essere a conoscenza del rapimento e, a maggior ragione, di esservi a qualsiasi titolo coinvolto. E un’astuzia molto miope, poiché dalla versione del governo discendono due conseguenze. La prima è che in Italia siamo tutti esposti a rischi gravissimi, visto che né la polizia né i servizi sono in grado di accorgersi che intorno a un individuo, peraltro sottoposto a stretto controllo da parte della magistratura, si viene da tempo orchestrando un rapimento. La cosa è tanto più sconcertante se si considera che il commando della Cia ha lasciato dietro di sé una quantità di tracce, quasi a voler dimostrare che la segretezza era l’ultima delle sue preoccupazioni. La seconda conseguenza dell’informativa del ministro concerne i passi che, giunti a questo punto, il governo italiano dovrebbe compiere nei confronti degli Stati Uniti, rei se Giovanardi ha detto il vero di gravissime violazioni della nostra sovranità. Uno Stato è sovrano se detiene il monopolio della «violenza legale». Se per avventura accettassimo che gli Stati Uniti possono impunemente fare uso della violenza sul nostro territorio, sanciremmo la loro sovranità e ci dichiareremmo loro sudditi. Per scongiurare tale esito, Berlusconi dovrebbe pretendere immediate e formali scuse dal presidente Bush nonché l’immediata consegna degli agenti della Cia (colpevoli anche di avere sottratto prove e terrorizzato la testimone) e dello stesso Abu Omar. Lo farà?
Il punto è che credere alla versione del governo è impossibile. Non solo perché nei precedenti noti del sequestro milanese gli americani hanno informato i governi interessati (Svezia e Canada). Non solo perché la stampa americana (a cominciare dal Washington Post) assicura di poter provare che «gli italiani approvarono il piano a livello nazionale». Non solo perché già il 30 ottobre del 2003 i nostri servizi fornirono una prima informativa sul caso. Non solo perché l’ambasciatore Usa ha replicato a muso duro a Berlusconi che tutto si è svolto secondo i patti. Il fatto è che l’intera politica estera del governo sta lì a dimostrare la più sfrontata subalternità all’«alleato» americano, senza riguardi per la dignità del Paese e per la stessa legalità costituzionale. Del resto, a smentire gli spergiuri del ministro per i rapporti con il Parlamento, mandato allo sbaraglio da chi conta qualcosa nel governo, ci hanno pensato i pasdaran filo-americani del centrodestra (i Ferrara, i Selva, i Teodori e lo stesso on. De Michelis, in procinto di traslocare nel centrosinistra al seguito del giovane Craxi), impancatisi a maestri di Realpolitik. «Volete che i servizi segreti chiedano il permesso per fare il proprio lavoro? Pretendete che la politica e il potere si inchinino dinanzi alle leggi?» Dopodiché sarebbe interessante sapere che cosa distingue la democrazia dal fascismo, secondo questi sapientoni pronti a farsi beffe di chi ancora crede nella favola del diritto.
Com’è stato osservato, in questa brutta faccenda si riflette una caratteristica della guerra in corso. Non solo bombardamenti e massacri, ma anche militarizzazione delle società e devastazione degli ordinamenti giuridici. Il «nuovo ordine mondiale» sognato da Bush è un paesaggio di non-Stati sui quali spadroneggiare per mezzo delle armi o di quel sistema di rapina legalizzata che è la centralità del dollaro: altro che l’«esportazione della democrazia» che qui da noi fa strage di cuori anche tra i dirigenti dell’Unione! Per quanto riguarda l’Italia, il caso Abu Omar lascia credere che ci si stia rapidamente adeguando, e il principale merito tra misteriose défaillances dell’intelligence e persistenti intrecci di massoneria, neofascisti e servizi segreti pare sia dei vertici della polizia di Stato, ansiosi di lasciarsi alle spalle le anticaglie della sovranità nazionale e di integrarsi nel sistema «globale» voluto dagli Stati Uniti. È indiscutibile tuttavia che la principale responsabilità del rapimento di Milano grava sul governo americano, deciso a mettersi sotto i piedi quanto resta del diritto internazionale e dei diritti umani.
Anche a questo proposito non scopriamo nulla di nuovo, se pensiamo a quanto sta accadendo da oltre due anni in Iraq, da quattro anni a Guantanamo, da cinquant’anni nel Sudest asiatico e da centocinquant’anni in America Latina. Ma se la memoria storica è una virtù, sarebbe sbagliato ritenere che non ci sia mai nulla di nuovo sotto il sole. La scommessa fatta da questo presidente, eletto a forza di brogli, non ha molti precedenti nella storia recente ed è quanto mai seria. Si tratta né più né meno di disfare la Costituzione americana, sbarazzandosi degli ostacoli posti dalle garanzie giuridiche e dalla separazione dei poteri; di privatizzare il privatizzabile, istituzioni comprese; di puntare tutto sulla forza militare (verso cui già oggi corre un flusso di miliardi superiore al bilancio militare di tutti gli altri Stati messi insieme) per prepararsi allo «scontro di civiltà» (non solo con l’islam, ma anche con i giganti euroasiatici) quale unica via di salvezza per il periclitante dominio americano. E dire che c’è ancora chi si affatica ad accreditare la tesi del «nuovo Bush» convertito al «multilateralismo»!
La storia del sequestro dell’imam di Milano aiuta infine a comprendere qualcosa anche sul funzionamento della stampa di casa nostra. I giornali si stanno comportando bene in questi giorni. Il Corriere della sera, in particolare, dedica all’episodio intere pagine e roventi denunce. C’è da chiedersi, tuttavia, il perché di questo interesse oggi, a distanza di anni dall’accaduto e dall’apertura dell’inchiesta giudiziaria. Il Corriere parlò già nel marzo 2003 della storia di Abu Omar, ma ben presto se ne dimenticò e non le ha più prestato molta attenzione prima dell’ultima settimana. Soprattutto, non è mai parso granché interessato al sistema dei rapimenti in cui la vicenda dell’imam di viale Jenner si inserisce. E sì che c’erano state denunce, interrogazioni parlamentari e inchieste giornalistiche. Ricordiamo che già nel dicembre del 2004 Liberazione aveva pubblicato una documentata ricostruzione a firma di Sergio Finardi, con tanto di foto e numeri di matricola degli aerei-fantasmi.
Non si tratta di una polemica fine a se stessa. Ci piacerebbe ragionare su una questione che dovrebbe interessare tutti coloro che fanno informazione. Un episodio si comprende ricostruendone il contesto, altrimenti si rischia di fermarsi alle apparenze e di commettere errori di valutazione. Da dove nasce l’esigenza del frequente ricorso alle extraordinary renditions, con il corollario delle torture a cui preludono? La risposta può sembrare scontata: dalla guerra di Bush. Ma tale risposta richiede una precisa analisi di che cosa sia, a sua volta, questa guerra: comporta che se ne riconoscano il carattere radicalmente illegale e il connotato terroristico, altrimenti non c’è denuncia che tenga, né verso i crimini della Cia, né nei confronti del servilismo del nostro governo. Non basta far volare gli stracci quando scoppia un «caso», per poi dopo averlo archiviato ricominciare, come nulla fosse, a sparare a giorni alterni sugli «anti-americani». Se si vuole essere credibili, bisogna fare discorsi seri. Cominciando per esempio a chiarire ai propri lettori, magari con qualche editoriale, dov’è oggi la centrale del terrorismo internazionale, chi rappresenta la più grave minaccia per la pace nel mondo, qual è per usare il lessico gentile oggi in voga il più pericoloso degli «Stati-canaglia».